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DIETRO LE QUINTE

Oltremare d’Europa, il colonialismo insulare britannico e francese oggi

Che il colonialismo non fosse finito coi processi di indipendenza afro-asistici degli anni Sessanta lo si era capito da tempo. Neo-colonialismo, post-colonialismo, colonialismo interno, sono tutte espressioni ormai comuni nel dibattito delle scienze sociali internazionali, che fanno tuttavia riferimento a un’era – appunto, il colonialismo politico – data per morta e sepolta. In realtà, soprattutto le due grandi ex-potenze coloniali del Vecchio Continente, Gran Bretagna e Francia, il colonialismo lo praticano ancora. Quello del controllo diretto dei territori dell’Oltremare, in cui le isole e gli arcipelaghi hanno un ruolo preponderante, alla faccia del post-colonialismo.

La Gran Bretagna ha 14 possedimenti ufficiali fuori dai propri confini territoriali, di cui la stragrande maggioranza (12) insulari. Per la Francia il discorso è un po’ più complesso, visto che Parigi ha deciso di dividere questi possedimenti in dipartimenti e regioni ultramarine (oltre alla continentale Guyana francese, a nord dello stato brasiliano di Amapá e a est del Suriname, cinque isole, ossia Martinica e Guadalupe nelle Antille, e Reunion e Myotte nell’Oceano Indiano), con lo stesso statuto delle regioni metropolitane, collettività ultramarine (con più autonomia, fra cui vari arcipelaghi nelle Antille e nel Pacifico, come la Nuova Caledonia o la Polinesia Francese), e infine i territori ultramarini (con statuti propri, quali le Terre Australi e Antartiche Francesi, ossia isole fra l’Antartico e l’Oceano Indiano, e l’Isola di Clippeton, disabitata, in mezzo all’Oceano Pacifico).

Se, nei decenni precedenti, questi territori insulari possedimenti delle due antiche potenze coloniali europee non rivestivano grande importanza, oggi il discorso si è fatto più interessante.

Isole Vergini Britanniche: una veduta dall’alto

Le isole dell’Oltremare britannico: fra interessi finanziari e geo-politici

Caraibi, Antille, Atlantico Sud e Nord, Oceano Pacifico, più due basi militari a Cipro. Sono questi i territori insulari britannici a cui la corona inglese tiene ormai tantissimo, e che rappresentano distaccamenti territoriali essenziali nell’attuale modernità liquida.

Le più famose isole, dal punto di vista finanziario, sono le Isole Vergini Britanniche (Bvi), il più noto paradiso fiscale al mondo, con quasi 400mila società off-shore registrate. Insieme alle Cayman e alle Bermuda (altri due possedimenti britannici) rappresentano il trittico dei luoghi coi maggiori benefici ficali al mondo. Addirittura, gli ultimi Pandora Papers hanno rivelato che circa i due terzi delle società offshore a livello mondiale hanno sede legale nelle Isole Vergini Britanniche. Ci si potrebbe immaginare, quindi, un arcipelago pieno di vita, di uffici, segretarie, linee telefoniche che squillano costantemente.

In realtà, niente di tutto questo accade neanche nella capitale dell’arcipelago, Road Town. Quelle società hanno soltanto il nome e, tutt’al più, un foglio aziendale con relativo timbro presso le Bvi. Anzi, non ci sono neanche i soldi nelle banche dell’arcipelago, visto che la maggior parte dei ricchi correntisti preferisce tenerseli al sicuro a New York o in Svizzera, ma avendo l’imposizione fiscale (si fa per dire) vigente presso le Bvi. Cristoforo Colombo, che così battezzò l’arcipelago in occasione della sosta di rifornimento prima di tornare in Spagna dopo il suo primo viaggio americano, nel 1493, sarebbe impallidito sapendo che quelle isole, dedicate a Santa Ursula e le sue 11mila vergini, massacrate dagli Unni a Colonia, hanno visto l’ex-primo ministro, Andrew Fahia, arrestato negli Stati Uniti per traffico di cocaina (legato al cartello messicano di Sinaloa) e lavaggio di denaro. Neanche l’approvazione, nel 2018, da parte del parlamento inglese, del Sanctions and anti-Money Laudering Act ha dissuaso l’esecutivo britannico a stringere un po’ la cinghia rispetto a un arcipelago in cui operazioni di lavaggio di denaro e flussi finanziari di sostegno a gruppi terroristici continuano a fiorire.

Una funzione diversa è esercitata, nello scacchiere insulare coloniale britannico, dalle Falkland (Malvinas per gli argentini). Milei ne ha rivendicato il controllo qualche settimana fa, secondo il principio dell’Uti possidetis juris. C’è da giurare che il presidente argentino insisterà su questa annosa questione, che non si è certo chiusa con la vittoria inglese del 1982, e che vede il sostegno all’inquilino della Casa Rosada da parte di tutti i paesi latino-amricani e della Cina. Oggi, le Falkland rappresentano, per la Gran Bretagna, quel che si è soliti chiamare uno “strategic gateway”. Una piattaforma, insomma, da cui esercitare un controllo militare dell’area, considerata la presenza – inaugurata nel 1985 dal Duca di York – della Raf (Royal Air Force), una nave della Royal Army e centinaia di soldati britannici in loco, oltre a una più recente sorveglianza satellitare. E quantità ancora non definite, ma certe, di petrolio presso le acque circostanti, visto che sono già state assegnate una quindicina di licenze di perforazione a multinazionali del settore, fra cui la Shell, e che il greggio rappresenta già più del 3% del Pil dell’arcipelago. In mezzo all’Oceano Atlantico meridionale, le isole di Sant’Elena, Ascensione e Tristan da Cunha (qui il link al blog del nostro Mauro Zucchelli, ilmediterraneo.blog, in cui si racconta dell’incredibile avventura di un livornese in quest’isola nel bel mezzo dell’oceano)  costuiscono un altro importante supporto logistico nell’area, ospitando una base militare (aeroporto militare di Wideawake), condivisa da americani e britannici,  che ha avuto una funzione significativa durante la guerra delle Falkland.

Infine, ancora dal punto di vista militare e del controllo dell’area, da segnalare il British Indian Ocean Territory. Si tratta di sette atolli dell’arcipelago di Chagos, in mezzo all’Oceano Indiano, più o meno a metà strada fra la costa africana e quella indonesiana. L’isola più importante è Diego Garcia, di 27 chilometri quadrati, che ospita una base militare di prprietà britannica, ma oggi condivisa da Stati Uniti e Regno Unito, in disputa con le Isole Mauritius, e di fondamentale importanza in alcuni, recenti conflitti, quali le Guerre del Golfo e dell’Afghanistan.

L’isola di Moorea: siamo nella Polinesia francese

La Francia fra Oceano Indiano e Pacifico

Non meno significativi sono i possedimenti insulari dell’Oltremare francese, localizzati fra Oceano Indiano e Pacifico. La Francia considera l’Indo-Pacifico come una regione unica, un blocco da preservare e da controllare, proponendosi almeno come media potenza, in stretta collaborazione con gli Stati Uniti, che hanno anch’essi una strategia parallela rispetto a quest’area. Per il controllo sull’Oceano Indiano, Parigi sta usando il soft power come arma strategica, anche se non mancano i conflitti coi paesi insulari vicini, Madagascar in primo luogo, così come una presenza militare molto rilevante.

Nel 2018, Macron aveva chiarito quali fossero gli interessi francesi nell’area: mantenere uno spazio aperto e inclusivo, garantendo una presenza militare navale e aerea, così come la partecipazione francese a organizzazioni trans-regionali. Nel primo caso, l’interesse è ovvio: nell’Indo-Pacifico è presente il 60% della popolazione mondiale, vi passano il 35% dei traffici commerciali, e la previsione è che il 70% della crescita economica internazionale passi da lì, nei prossimi anni, per non parlare dei cavi sottomarini che garantiscono la connessione Internet in tutto il mondo.

Nella regione, sono circa 7mila i militari francesi, di cui 4.100 nella parte dell’Oceano Indiano, presso le isole Mayotte e Reunion, attraverso la Fazsoi, e 2.900 sul lato dell’Oceano Pacifico, situati presso la Nuova Caledonia (Fanc) e la Polinesia francese (Fapf). Ma non c’è soltanto la presenza militare, da parte di Parigi. La Francia fa parte di due importanti organizzazioni trans-regionali, quali l’Indian Ocean Commission, composta dai principali paesi insulari africani che si affacciano sull’Oceano Indiano (Madagascar, Comore, Seychelles e Mauritius), e la Pacific Community and Indian Ocean Rim Association.

In queste organizzazioni, Parigi fa valere il suo soft power: a partire dalla sua presenza in isole modeste, da un punto di vista delle dimensioni, stringe accordi bilaterali in funzione soprattutto anti-cinese (ultimamente con l’India), contribuisce ad aiutare paesi in difficoltà, come è accaduto per il Mozambico in occasione degli attacchi jihadisti nella sua zona nord, dal 2017, o allo stesso Mozambico e al Madagascar in caso di eventi naturali estremi, come è successo nel 2019, destinando il 23% dell’intero budget dell’Agenzia Francese di Sviluppo (Adf) proprio all’area dell’Indo-Pacifico.

Insomma, per Gran Bretagna e Francia il colonialismo non è ancora finito, anzi, grazie proprio al controllo di isole sparse in mezzo agli oceani, questi due paesi europei stanno provando a rinnovare i loro fasti di grandi potenze internazionali, posizionandosi in modo strategico per avere più di una finestra in un mondo in evoluzione, in cui il Mediterraneo sembra perdere sempre più la propria centralità, in favore della regione dell’Indo-Pacifico.

Luca Bussotti

(Luca Bussotti è africanista, docente universitario in Mozambico, Portogallo e Brasile, oltre a essere visiting professor in atenei italiani quali Milano e Macerata)

 

Pubblicato il
5 Maggio 2025
Ultima modifica
7 Maggio 2025 - ora: 10:18
di LUCA BUSSOTTI

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