L’ultima sfida su Taranto un piano da 400 milioni
Importanti interventi anche dello Stato per completare lavori sempre ritardati dalla burocrazia – Obiettivo per il 2014, almeno un milione di Teu
TARANTO – Sterilizzare l’Iva sulle grandi opere, potenziare gli investimenti privati, ridurre il peso della burocrazia italiana, che specie i network mondiali della logistica aborriscono. Parte da questi punti la scommessa per il rilancio di Taranto, sia come porto “hub” per i grandi traffici con il Far East, sia come economia generale del comprensorio sconquassata dalla vicenda Ilva.
In uno special del Corriere della Sera (sul magazine “Sette” di fine agosto) un lungo servizio documentato sui progetti per il porto di Taranto è stato intitolato: dal porto arriva la speranza. Ovvero: un piano da 400 milioni di euro per fare della città la Rotterdam del Mediterraneo: ma i cinesi minacciano di lasciare lo scalo se non si fa in fretta.
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Sergio Prete
E’ la dannazione di tutti i grandi progetti per i principali porti italiani: capitali anche ingenti, messi a disposizione dai grandi gruppi intercontinentali che vogliono stabilire basi operative portuali nel sud dell’Europa – il nord è già abbondantemente coperto, per quanto stia ancora sviluppandosi – ma sono rimasti scottati dalle promesse non mantenute dei governi italiani, dalla burocrazia asfissiante, dalla lunghezza per ottenere un permesso di costruire banchine e strutture, dall’infinita diatriba sui dragaggi portuali.
“Il porto di Taranto si muove su un crinale pericoloso – scrive Ferruccio Pinotti su “Sette” – infatti i due giganti asiatici del trasporto marittimo, la taiwanese Evergreen Maritime Corporation e la cinese Hutchison Whampoa che controllano il 90% del traffico containers locale sul Taranto Container Terminal (dovuto all’iniziativa dell’imprenditore italiano Pierluigi Maneschi, che si è adoperato anche in proprio, n.d.r.) dopo aver pesantemente investito ed essersi spesi con nuovi impegni si sono irritati per le opere promesse e mai realizzate dal governo Berlusconi. Così le due società hanno spostato il 70% dei loro traffici al Pireo, ormai interamente in mano ai capitali cinesi. Ne è derivata l’attuale crisi, che ha messo in cassa integrazione 500 lavoratori su un totale di 600”.
Sergio Prete, docente universitario di diritto della navigazione e presidente della Port Authority tarantina, spiega così la quasi-fuga dei cinesi. “Nell’agosto del 2011 Evergreen ha trasferito al Pireo gran parte delle proprie linee, lamentando il mancato adeguamento nel nostro terminal, la mancanza di dragaggi necessari per l’attracco delle grandi navi, la mancata realizzazione della diga foranea per stabilizzare i flussi marini davanti al terminal, il mancato potenziamento dei raccordi ferroviari con il nord, e infine i continui rallentamenti dei lavori di costruzione della piattaforma logistica integrata, iniziati nel 2003 ed ancora lontani da conclusione”.
Il professor Prete, supportato da parte della struttura manageriale portuale di Taranto, è riuscito nel febbraio scorso ad ottenere dal governo Monti la qualifica di commissario straordinario per le grandi opere portuali, con poteri di controllo e decisionali nettamente maggiori. Il primo risultato: nel giugno scorso è stato finalmente firmato un piano per il rilancio dei porti tra governo Monti – attraverso i ministeri dei Trasporti, dell’Ambiente e della Coesione – la Regione Puglia e le relative istituzioni locali, Trenitalia, Sogesid e specialmente le due grandi compagnie asiatiche. Non si tratta del solito protocollo di buone intenzioni soltanto: sono stati stanziati 187 milioni per le infrastrutture portuali e altri 219 milioni sono dedicati agli investimenti per completare la piastra logistica. Totale: 400 milioni per ripartire. I privati da parte loro si sono impegnati per 80 milioni, con nuove gru dell’ultima generazione che potranno operare anche sulle 18/20 mila Teu, e locomotori per il traffico in banchina. L’obiettivo, formalmente sottoscritto: un milione di teu/anno a partire dal 2014. Nemmeno molto considerando che nel 2011, prima della caduta di quest’anno, Taranto era arrivata a 600 mila Teu. Un punto dolente è che il traffico tarantino è stato legato, fino a quest’anno, per oltre il 60% alle attività dell’Ilva. E la recente mazzata sugli stabilimenti locali della metallurgia certo non aiuta.
In questo quadro ci sono stati – continua l’esposizione di Prete – anche accordi di cooperazione internazionale: uno con l’International Shipment Institute di Shanghai; l’altro con l’Autorità portuale di Rotterdam che ha scelto Taranto come partner strategico per il sud Europa, inserendo il porto nei suoi network intercontinentali.
Dunque, ci sono premesse e promesse. Tutto adesso dipende dai tempi. E dai “colli di bottiglia” che rendono difficile la logistica tra Taranto e il centro e nord Europa. Una grande sfida. Con la consapevolezza che per Taranto – e anche per la portualità italiana più in generale – è quella definitiva. O si vince o si torna al Medioevo.
A.F.
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