Navi velocissime, come e perché

Cristiano Bettini

LIVORNO – Velocità e stabilità negli scafi marini sono obiettivi che hanno sempre stimolato i progettisti navali, sia nel segmento dei traghetti iperveloci che nel militare. L’ammiraglio di squadra Cristiano Bettini, uno specialista nello studio delle carene navali (ha pubblicato numerose ricerche, oltre a tre ponderosi volumi sull’evoluzione dei grandi velieri) ha scritto adesso per il mensile “Panorama Difesa” un impegnativo lavoro sul tema di cui riportiamo, a mò di presentazione, alcuni estratti, rimandando alla rivista lo studio completo anche di numerose immagini.

Il rinnovato interesse per unità molto veloci, o meglio potenzialmente molto veloci, riguarda tutte quelle missioni classificate come Military Operations Other Than War (MOOTWs) e Peace Support Operations (PSOs), cioè svolte al di fuori di un aperto conflitto armato, che sono oggi la maggioranza, soprattutto nei grandi mari chiusi o attorno ai principali choke points mondiali dove cresce uno stato di tensione permanente; queste unità sono in grado di assolvere diverse missioni e funzioni navali di interesse per la sicurezza nazionale, in cui la deterrenza e la possibilità di soluzione non passano solo da un potente armamento, ma anche dalla capacità di intervenire tempestivamente per evitare la spirale di escalation che si può ingenerare in tali situazioni, come casi reali hanno evidenziato: per il nostro Paese, ciò investe aspetti anzitutto di tutela e autodifesa, come la protezione delle nostre unità mercantili e piattaforme energetiche da stati di tensione con altri attori statuali o atti di terrorismo; la prevenzione e il contrasto di traffici illeciti in alto mare e del contrabbando, anche oltre le nostre acque territoriali (ricordiamo il diritto di inseguimento); la “vigilanza pesca” per evitare che nostri pescherecci siano sequestrati in acque internazionali; il contrasto all’immigrazione illegale; le operazioni di salvataggio in alto mare; il contrasto all’inquinamento e ai danni ambientali prodotti da navi estere in prossimità delle nostre coste e molte altre circostanze in cui anche il solo possesso di unità molto veloci funge da deterrenza. A queste si può aggiungere l’intervento nella Zona Economica Esclusiva (ZEE) di cui si sta dibattendo in Parlamento. Tale potenzialità riguarda sia la Marina che i Corpi armati dello Stato, oltre che le rispettive Forze speciali per interventi in alto mare. A ciò si aggiungono tutte quelle missioni promosse dalle Alleanze di cui facciamo parte, dette in generale Peace Support Operations, che per definizione sono operazioni in cui lo scopo principale è il ripristino, con la forza o con la deterrenza, di una situazione di stabilità, al fine di disinnescare potenziali situazioni al limite del confronto armato.

In tutte queste, dunque, la velocità deve essere una risorsa disponibile, da utilizzare all’occorrenza, che può cambiare l’esito di un intervento svolto con strumenti militari navali ordinari. Inoltre, la configurazione geografica del nostro Paese e dei bacini da proteggere che lo circondano, a fronte delle aree più prossime da cui possono generarsi le situazioni anzidette, consentirebbero in molte di queste fattispecie di evitare di tenere permanentemente in mare unità di ingente tonnellaggio della o delle flotte, con gli oneri ingenti connessi; infatti, le distanze di intervento sono tali che unità adeguate, a velocità doppia o tripla delle attuali, sarebbero in grado di intervenire direttamente, all’occorrenza, dalle basi di cui disponiamo in tutto il Centro-Sud della Penisola. Peraltro, non si tratta di una forma nuova di approntamento: sia durante la Guerra Fredda, sia durante il collasso dei regimi della ex-Jugoslavia e dell’Albania dei primi anni ’90 (in questo caso per fenomeni qualitativamente analoghi), diverse unità, a turno, venivano tenute per lunghi periodi in uno stato di elevata prontezza per uscire in mare, come sperimentato dall’autore, pur raggiungendo velocità ben inferiori, non superiori a 30 nodi circa.

Nel considerare i mezzi navali ad altissima velocità, per conseguire queste potenzialità la sola spinta al galleggiamento tradizionale non basta, poiché tale spinta è proporzionale al dislocamento, e ad alta velocità conviene minimizzare questo parametro in quanto più il volume del mezzo navale è immerso, maggiore è la resistenza idrodinamica. Pertanto, varie soluzioni vengono studiate per dotare le navi di queste performance.

Nel passaggio ai cuscini d’aria, come negli hovercraft, per evitare tale resistenza, viene usata una pressione maggiore di quella atmosferica per minimizzare o annullare il contatto con l’acqua e la conseguente resistenza. Non si tratta di un cuscino chiuso, e un flusso d’aria mantiene alta la pressione, detta powered aerostatic lift. Nel caso degli scafi plananti, invece, la spinta idrodinamica sostiene una parte del peso altrimenti sostenuto dalla spinta idrostatica o, aumentando la velocità, la surroga; scafi plananti, catamarani ad alta velocità (o trimarani e quadrimarani) usano questo principio per raggiungere alte velocità. Se, invece di un monoscafo planante, viene impiegata una superficie simile ad un aerofoil posta sott’acqua, si ottiene un idrofoil, ormai noti anche ai più per l’uso nelle barche a vela dell’America’s Cup: sostanzialmente, mentre nel modo planante la spinta idrodinamica è generata soltanto da una superficie, cioè la superficie bagnata della scafo, gli idrofoil sviluppano un effetto simile agli aerofoil poiché la spinta idrodinamica è data dalla differenza tra la pressione dinamica agente sulla faccia inferiore e quella che agisce nella faccia superiore, come nell’ala di un aereo.

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