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L'INCREDIBILE STORIA

L’esodo degli scienziati in fuga dagli Usa dopo i tagli di Trump

Apriamo le porte ma occhio a non dimenticare i nostri giovani talenti in cerca di futuro

LIVORNO. Chiunque abbia amici “cervelloni” sa che da sempre gli Stati Uniti sono in testa alla classifica dei desideri di qualunque ricercatore: ti rispondono che, mentre qui devi fare tanta anticamera e portare tanti caffè prima di poter sperare di entrare da una porticina dentro il sistema dell’università, laggiù al di là dell’Atlantico se sei in gamba la meritocrazia regna, ti aprono le porte e ti affidano responsabilità e soldi. Vabbè, neanche gli States saranno il Paradiso terrestre ma nell’opinione di parecchi comunque qualcosa che non è molto lontano da quel che cerca uno scienziato o un ricercatore: almeno finché non sei costretto a sperimentare cosa vuol dire la sanità privata, ad esempio.

Eppure il mondo della ricerca a stelle e strisce, l’eccellenza nell’eccellenza del mondo – un reame in cui, detto per inciso, si potrebbero contare a decine e decine i giovani toscani – trema in questi giorni: trema forse più ancora di quanto hanno tremato gli indici di borsa (se pensiamo che si può guadagnare su qualsiasi scostamento all’ingiù o all’insù, basta essere quello che ha in mano le informazioni o può crearle…). Nei mesi scorsi si sono bruciati in poche ore anche centinaia di miliardi di dollari di capitalizzazione. Come se sparisse di punto in bianco il Pil dell’intera Austria o di tutto il Belgio.

Fin qui restano nella sfera delle confidenze private le telefonate allarmate di chi si è messo le gambe in capo per diventare brillantissimo ricercatore o straordinaria scienziata e ora, talvolta a metà del cammino e talvolta invece agli inizi di carriera, si sente mancare la terra sotto i piedi e pensa di rifare la valigia e cercare sul mappamondo qualche realtà sufficientemente hi-tech per trasferirvisi.

Niente dà il polso della situazione meglio del sondaggio che “Nature”, una delle più prestigiose riviste scientifiche del pianeta, ha svolto fra i ricercatori americani: hanno risposto in 1.608, il 75,2% di loro confessa che sta valutando l’idea di andarsene dagli Stati Uniti perché il clima non fa più per loro e si stanno guardando intorno nel resto dell’Occidente industrializzato per vedere se lasciare davvero gli States. Non è la rivolta degli anti-Trump: semplicemente il nuovo presidente americano è andato all’attacco dei “santuari del sapere” a colpi di lanciafiamme per addomesticarli e ottenerne il consenso altrimenti avrebbero perso i fondi decisi dalla Casa Bianca. Una eresia per chi è abituato alla indipendenza della ricerca accademica, in primis quella scientifica.

In particolare, “Nature” rivela che «la tendenza è assai netta tra i ricercatori agli inizi di carriera: ipotizzano di lasciare gli Usa 548 dei 690 ricercatori post-laurea che hanno risposto al sondaggio (poco meno dell’80%) e 255 dei 340 studenti di dottorato.

Figuriamoci se migliaia fra le migliori menti sono disposte a restare appese alla strategia di trattativa di Trump che, con la sua teoria degli strappi e degli sconquassi (spesso semplicemente vendicativi), un giorno promette la guerra alle maggiori università americane, una straordinaria eccellenza nel mondo, e l’indomani si inventa una sorta di tregua, salvo poi ripartire all’attacco. Ne parlano come se fosse una strategia per contenere i costi nell’ambito della razionalizzazione dell’apparato pubblico da fare con la proverbiale motosega donata a Elon Musk (Doge) dal leader argentino Milei, in realtà si tratta delle prove tecniche di “capocrazia”, se non peggio, in corso negli Usa per mettere a cuccia anche il sistema di giustizia: i giudici hanno spesso fatto saltare i diktat della razionalizzazione trumpiana e hanno revocato d’autorità i licenziamenti di un gran numero di ricercatori, salvo poi nuovi ordini di licenziamento.

Per molti l’ipotesi più semplice è provare a vedere di trasferirsi in paesi «in cui avevano già collaboratori, amici, familiari o familiarità con la lingua», spiega “Nature”. In qualche caso, tornando al paese d’origine. Il punto non è se si condivide o meno la svolta di Trump, il punto è se il trumpismo lascerà spazio a queste intelligenze. Spesso – spiega la rivista a commento del sondaggio – sono proprio i mentori, cioè gli studiosi che stanno allevando la nuova generazione di ricercatori, a consigliare ai loro allievi di andarsene quanto prima.

Il contraccolpo della minaccia di quest’ondata di licenziamenti di massa nella comunità scientifica americana è tale da aver ingenerato due contraccolpi. L’uno: il profilo ex Twitter di Top Biomedical Science segnala la campagna acquisti di Pechino che punta a reclutare forza lavoro intellettuale in uscita usando il fascino di Shenzen, polo high tech cinese, con registri molto yankee sulla libertà di lavorare e magari di farne impresa. L’altro: la Cnn rivela la preoccupazione dell’intelligence americana riguardo al tentativo di russi e cinesi di usare il mugugno in questi settori del lavoro pubblico negli Usa per acquisire nuove fonti informative.

Fatto sta che un’altra analisi di “Nature” – che di questo filone ha fatto un cavallo di battaglia – è citata dal “Corriere della sera” per attestare che i primi dati sulla fuga di cervelli dagli Usa la danno già per iniziata: «Gli scienziati statunitensi hanno presentato il 32% in più di domande di lavoro all’estero tra gennaio e marzo 2025 rispetto allo stesso periodo del 2024», le visualizzazioni per opportunità di lavoro nel settore della ricerca fuori dagli Usa da parte di utenti americani «sono cresciute del 35%».

Come termometro per misurare questa “febbre”, il quotidiano acchiappa al volo  anche un giudizio di James Richards, capo del team “Global Talent Solutions” di “Springer Nature”: è una situazione «senza precedenti». Basti guardare al flusso fra Stati Uniti e Canada dopo le mosse di Trump: le domande di ricerca da parte di canadesi che vogliono andare a lavorare negli Stati Uniti sono calate «del 13%», al contrario sono aumentate «del 41%» le richieste di ricercatori che dagli Usa cercano di emigrare in Canada.

E l’Unione Europea, cosa fa? C’è qualche iniziativa a livello di singolo ateneo: ad esempio, Aix-Marsiglia ha messo sul tavolo 15 milioni di euro per attirare 15 scienziati a lavorare da loro presentandosi come “posto sicuro per la ricerca scientifica”. Risultato: quasi 300 domande, più di 200 delle quali in arrivo dagli Usa (e altrettante richieste di chiarimenti). Quindici milioni sono tanti per una singola università ma rappresentano mezza goccia nell’oceano: e in effetti, da Bruxelles si annuncia il varo di un pacchetto di provvedimentii acchiappa-cervelli da mezzo miliardo di euro.

Il fisico Guido Tonelli

Si muove anche la comunità scientifica. Lo scienziato Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana dal 2014 al 2018 e ora alla guida dello European Space Science Committee, è alla testa di una mobilitazione che ha coinvolto anche il presidente Mattarella: offrire “asilo” agli scienziati americani che non se la sentono più di stare negli Usa.

Il fisico Guido Tonelli, uno dei “cervelli” che sta dietro il Cern ginevrino e le scoperte della “particella di Dio” (bosone di Higgs), dice che 500 milioni non bastano, servono «almeno 4 miliardi»: una montagna di soldi, ma se pensiamo che dopo aver lesinato per piccole cifre su ogni manovra economica, ora l’operazione riarmo (con armi comprate in massima parte negli Usa) mette sul piatto 800 miliardi

Per capire cosa è in gioco: in una lunga intervista in radio, Tonelli ha ricordato che alle spalle della grande crescita dell’economia americana negli anni del dopoguerra  c’è l’esodo che ha spinto una o due generazioni di intelligenze in fuga dall’Europa, soprattutto dalla Germania nazista e dell’Italia fascista, a lasciare la propria terra d’origine per andare a coltivare il proprio talento negli Stati Uniti. Nei decenni successivi il sistema della ricerca Usa ne ha fatto un format: rastrellare a livello planetario le migliori intelligenze formate ovunque nel globo, lasciando dunque sulle spalle dei paesi d’origine i costi della formazione di massa dalla quale sarebbero emersi poche migliaia di super-menti.

Porte aperte, dunque, ai ricercatori americani: è nell’interesse di noi europei. Ma c’è un “ma”: è l’insieme della ricerca che va incrementata, altrimenti ci ritroveremo ben che vada a intasare di studiosi americani i pochi posti che le università riescono a creare per le nuove leve di scienziati. Equivarrebbe a costringere una folla di ricercatori italiani a uscire di fatto dai percorsi precarissimi con cui, spesso per almeno un decennio se non due, sopravvivono in attesa di una collocazione, prima di gettare la spugna e magari riciclarsi come prof nel sistema di istruzione ordinario (in genere le scuole superiori, talvolta perfino le medie).

Mauro Zucchelli

Pubblicato il
17 Maggio 2025
di MAURO ZUCCHELLI

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