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Troppe idee pochi fatti e niente soldi

LIVORNO – Ci sarebbe da sperare che la Pasqua appena trascorsa abbia portato un po’ di pace sull’argomento: ma non illudiamoci, che faremmo la parte degli ingenui.

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Fatto sta che il superbacino di carenaggio di Livorno rischia di diventare uno dei tanti pantani in cui le non scelte delle istituzioni locali ci hanno infilato negli anni. Come lo scandaloso rinvio infinito del porto turistico della Bellana – il primo progetto del compianto architetto Martigli sta avvicinandosi al giro di boa del mezzo secolo – o la sistemazione del bacino galleggiante di Salvadori, tanto per rimanere in argomento, o ancora la “Porta a mare” di cui si sono persi da tempo i reali connotati.

Lo stesso interesse della città e delle istituzioni  sul bacinone ha avuto e continua ad avere un andamento carsico: lunghi periodi di assoluto silenzio, poi qualche fiammata qua e la innescata dai sempre più rassegnati riparatori navali (quelli che ci sono rimasti), due o tre proclami pubblici tanto per rimandare le scelte, e alla via così. Per dirla in termini marinareschi, avanti adagio, quasi indietro.

Eppure non sono mancati i tentativi di chiarire, una volta per tutte, che fare della vascona-colabrodo, da anni ormai ridotta a un relitto o quasi e fatta oggetto di provvedimenti della magistratura che hanno contribuito a spaventare, ma non ad accelerare soluzioni. Prendiamo la perizia del RINa: certamente rispettabile, certamente documentata, certamente ricca di riferimenti tecnici e finanziari. Che pecca, secondo qualcuno, di essere stata commissionata non dall’Autorità portuale, come parecchie volte aveva riferito l’istituzione, ma da una parte in causa, cioè il cantiere Benetti che l’ha tra l’altro in concessione, e non senza problemi, oneri e distinguo. Chi l’ha ordinata, quella perizia? Ufficialmente ancora non l’ha detto nessuno: ma è chiaro che le cose cambiano, anche sul valore, a seconda se è stata richiesta dal committente privato o da quello pubblico.

Però pochi ricordano che anche la Camera di Commercio aveva fatto elaborare uno studio tecnico-economico di alto livello sulle possibilità e sui costi di ripristino del suddetto bacino. E che quello studio aveva dato risultati che sembravano tagliare definitivamente la possibilità di riutilizzare il bacino per i carenaggi, anche in relazione ai piani di espansione residenziale-portual-turistica della “Porta a mare”, prospettando invece la sua dismissione, la sua trasformazione in scalo per navi da crociera, e ipotizzando addirittura la creazione di un altro bacino in quell’area che avrebbe poi coltivato i grandi sogni (da tempo naufragati) di una Piattaforma Europa che probabilmente non nascerà mai.

Comunque vadano le cose infine, il vero problema – sottolineato un paio di volte anni fa anche dal presidente della Camera di Commercio, sia in comitato portuale che su queste colonne – è quello delle responsabilità dello stato attuale del bacino, e dell’iter per una sua eventuale dismissione, trasformazione o riutilizzo. Un dettaglio di non poco conto: secondo lo studio della Camera di Commercio, il ripristino funzionale costerebbe dai 12 ai 20 milioni di euro. Ma chi dovrebbe pagare questa non piccola somma se le istituzioni centrali (e locali) decidessero che il bacinone va agli yachts di Benetti, oppure si riapre alle riparazioni?

Mi fermo qui e non entro nei cento altri problemi di cui si parla malvolentieri ma che ancora esistono, compreso l’esposto dell’avvocato Taormina per i riparatori, che non ci risulta archiviato e che quindi potrebbe risultare anch’esso una mina vagante. La domanda sul chi paga è quasi sempre risolutiva, e potrebbe diventarlo in tempi rapidi se fosse posta come base dell’attuale diatriba. A meno che non ci sia per tutti la solita riserva mentale: e cioè che a pagare dev’essere, come sempre, Pantalone.

Antonio Fulvi
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Pubblicato il
11 Aprile 2012

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