Provinciali: su regole e flessibilità
Dal segretario generale dell’Authority livornese Massimo Provinciali riceviamo questo interessante contributo sul dibattuto tema delle “regole” per il lavoro in banchina.

Massimo Provinciali
LIVORNO – E’ un momento in cui nel porto di Livorno (e forse non solo nel porto di Livorno…), sale forte la richiesta che l’Autorità portuale garantisca il rispetto delle regole, peraltro uno dei principali compiti istituzionali dell’Ente.
Quando una simile richiesta proviene contemporaneamente dai rappresentanti dei lavoratori e dai rappresentanti delle imprese, è segno che la misura della “deregulation” è colma e poco conta che a reclamare la fine del far west ci sia anche qualcuno che del far west sia protagonista non secondario… Prendiamolo, diciamo così, per un ravvedimento operoso…
Per rispondere a questa domanda di legittimità e per adempiere al proprio ruolo di ente vigilante sulle attività portuali, l’Autorità portuale di Livorno, come già preannunciato, ha diramato in questi giorni una circolare a tutti gli operatori in cui vengono richiamate, mettendole in ordine e spiegandone la “ratio”, le disposizioni di rango normativo, ministeriale e locale nei cui confini deve svolgersi la libera attività d’impresa.
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E’ però evidente che anche il mondo delle regole ha bisogno di un suo “manuale operativo” che consenta, partendo dall’analisi della finalità della norma, di dare il giusto significato alle parole utilizzate dal legislatore.
Quando mi capita di parlare della ricerca del giusto mezzo tra l’applicazione letterale e talebana di una norma e la sua interpretazione a maglie larghe, faccio spesso ricorso al seguente paradosso: l’articolo 575 del codice penale recita: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”. Secondo gli amanti dell’interpretazione letterale della norma, non sarebbe quindi punibile chi uccide una donna, con la conseguenza che, come dicevano gli antichi saggi, “summum ius, summa iniuria”, locuzione che certo piacerà all’amico latinista Antonio Fulvi.
Cosa voglio dire? Mi permetto solo di ricordare che qualunque disposizione va letta avendo ben chiaro qual è l’interesse principale che la norma vuole tutelare. Nel nostro caso (“nostro” nel senso che immodestamente mi aggiungo al novero degli operatori portuali), il principio informatore di ogni attività interpretativa risiede nella ricerca dell’equilibrio tra l’interesse dei soggetti privati al libero esercizio dell’attività imprenditoriale e l’interesse pubblico a che siano evitati abusi di posizione dominante, disparità di trattamento, scarsa trasparenza, avendo d’altro canto cura di evitare che le maglie dell’interpretazione delle norme siano così larghe da lasciar passare la violazione delle medesime.
Tutto questo preambolo, di cui mi scuso, per segnalare che piomba sui maccheroni del dibattito livornese il cacio rappresentato dalla recente sentenza del TAR Liguria n.747/2012 del 15 marzo scorso.
Non scendo nel dettaglio del contenzioso deciso dal giudice ligure, ma mi piace richiamare l’attenzione sul cuore filosofico della decisione.
Si dibatteva del controverso articolo 18, comma 7, primo periodo, della legge n.84 del 1994, secondo la cui formulazione letterale una concessione deve corrispondere ad un unico operatore concessionario (la parte ricorrente è un consorzio di imprese) e un concessionario non potrebbe operare al di fuori della propria concessione.
Il giudice ha correttamente, a mio parere, inquadrato la ratio di tale norma: si è ormai definitivamente passati da una visione “statica” del demanio marittimo (in primis quello portuale), come bene da tutelare e solo eccezionalmente dare in concessione, ad una visione “dinamica” che attribuisce alle aree portuali una finalità produttiva e il fatto che l’attività economica ed imprenditoriale sia preponderante rispetto al passato, rigoroso regime demaniale – dice il tribunale – è confermato dall’articolo 18, comma 6, della legge, che prevede l’incremento dei traffici e della produttività del porto quale parametro da seguire nella funzione concessoria dell’Autorità portuale. Ne consegue che, più che l’apodittico e rigoroso attaccamento alla formulazione letterale di un apparentemente insuperabile divieto, va posto l’accento sul “…rispetto dei princìpi di concorrenza, di libertà di stabilimento, di garanzia dell’esercizio dello sviluppo, della valorizzazione delle attività imprenditoriali e di tutela degli investimenti”.
Per conseguire tale scopo, la concessione deve perdere il suo originario carattere di atto unilaterale espressione di un potere autoritativo della Pubblica Amministrazione ed avvicinarsi sempre di più al modello della concessione/contratto, con contenuti negoziati, tant’è che l’articolo 18, comma 4, della legge consente la conclusione di accordi sostitutivi ex articolo 11 della legge n. 241 del 1990.
Se a tali considerazioni di stampo giuridico/amministrativo si aggiunge la valutazione che “…l’incremento del traffico portuale si ottiene con adeguati investimenti a cui fa necessariamente riscontro il potenziamento e la flessibilità dell’attività d’impresa…”, è chiaro che la vera preoccupazione che l’Amministrazione deve avere non è quella di garantire l’asettico rispetto della lettera della norma, ma il rispetto dell’evidenza pubblica, della parità di trattamento, delle condizioni per una concorrenza leale nell’ottica precipua del concorso allo sviluppo dell’intera comunità portuale e, conseguentemente, dell’intero territorio.
La disposizione secondo cui deve esserci una sola concessione per un solo operatore va letta – prosegue la sentenza – tenendo conto del fatto che “…la limitatezza degli spazi, unitamente alle esigenze di specializzazione dei singoli terminals, possono rendere assai complessa – e probabilmente neppure opportuna in quanto non necessariamente rispondente agli interessi degli utenti che preferiscono fruire dei servizi offerti da operatori specializzati nella movimentazione dei vari tipi di carichi – la presenza nello stesso porto di più concessionari svolgenti la medesima attività in effettiva concorrenza tra loro”. Ergo, se dalla sinergia tra più operatori deriva un miglioramento della qualità dei servizi resi agli utenti del porto, bene; se ne deriva, invece, un “cartello” che abusa della propria posizione pregiudicando la concorrenza e lo sviluppo dei traffici, male! La verifica di tale concreta configurazione è compito specifico dell’Autorità portuale nelle fasi del rilascio, del monitoraggio e della verifica delle autorizzazioni e/o concessioni.
E anche il divieto per un operatore di operare al di fuori della propria concessione (in particolare, su spazi pubblici), non va inteso in senso assoluto: in primo luogo, perché se ci opera tramite un’impresa appaltatrice autorizzata ex articolo 16, il divieto è bello che aggirato (dovendosi, anche qui, far riferimento non al solo dato formale, ma alla sostanza del fenomeno commerciale); in secondo luogo, in quanto le specifiche condizioni di tempo e di luogo possono rendere perfettamente legittima la fattispecie purché, ancora una volta, coerente con le esigenze di sviluppo dei traffici portuali.
In conclusione, la sentenza del TAR Liguria che, personalmente, mi auguro non sia impugnata ed anzi si consolidi nei concetti espressi, richiama l’attenzione di tutti, amministratori ed operatori, su quanto sia necessario attestarsi su princìpi generali di ampio respiro (ragionevolezza, sviluppo dei traffici, concorrenza leale, trasparenza e parità di trattamento), piuttosto che sulla stretta lettera della norma, atteggiamento quest’ultimo affetto da miopia che, come è noto, è quel difetto che fa vedere bene le cose molto vicine (come i propri esclusivi interessi…), ma non consente di guardare lontano.
Massimo Provinciali
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