L’angolo (del) marittimista – Operazioni portuali come “attività pericolose”

Luca Brandimarte
Il nostro collaboratore dottor Luca Brandimarte, junior advisor for EU and legal affairs anche in Assarmatori, affronta oggi temi riguardanti le attività pericolose nella portualità.
Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose in porto: il caso delle operazioni di carico e scarico di una nave a mezzo gru.
Roma – L’articolo 2050 del codice civile italiano, disciplina i profili di responsabilità derivanti dall’esercizio di attività pericolose. Ai sensi di tale disposizione normativa, infatti, “Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.
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La norma sopra citata impone a chi svolge un’attività pericolosa di risarcire i danni che ne derivino, potendo il danneggiante escludere la propria responsabilità (tendenzialmente legata alla colpa o al dolo) solo se quest’ultimo sia in grado di dimostrare di aver adottato tutti gli accorgimenti idonei, sia di natura tecnica, sia di natura organizzativa, ad evitare il verificarsi di eventi dannosi secondo la migliore tecnologia disponibile in quel momento sul mercato.
Il tutto con la conseguenza che, qualora la tecnologia ancora non offrisse, rispetto ad una determinata attività, misure adeguate a prevenire danni a persone o cose, potrebbe ritenersi che il soggetto agente svolga tale attività senza alcuna possibilità di prova liberatoria (eccezion fatta per l’ipotesi di caso fortuito).
In sostanza, per essere esente da responsabilità, il soggetto agente non può limitarsi a provare di non aver violato alcuna norma di legge o regolamentare o di essere stato diligente. Al contrario, tale soggetto è tenuto a fornire la prova positiva di aver posto in essere, in particolare, ogni accorgimento tecnico – ivi inclusi quelli più avanzati e solo astrattamente possibili – volto ad impedire il verificarsi dell’evento dannoso ed a garantire lo svolgimento dell’attività in condizioni di massima sicurezza. Il tutto – è opportuno precisarlo – a prescindere dal costo che tali accorgimenti tecnici potrebbero comportare.
Alla luce di quanto precede, si tende ad includere la fattispecie di responsabilità prevista dall’art. 2050 c.c. tra le ipotesi di responsabilità oggettiva, vale a dire tra quelle ipotesi di responsabilità che prescindono dall’accertamento di una condotta dolosa o colposa da parte del soggetto agente.
Pertanto appare facile intendere come l’unica prova liberatoria, in questo caso, sia rappresentata, in pratica, dal c.d. “caso fortuito”, vale a dire da un evento del tutto eccezionale ed imprevedibile in grado di spezzare completamente il nesso causale tra l’attività ed il danno. Il tutto sul presupposto che, alla luce di questa analisi, a niente gioverebbe provare la diligenza di chi esercita l’attività pericolosa.
Ma quali sono, quindi, le possibili implicazioni di questa disciplina in ambito portuale?
Ora, considerando che l’attività degli operatori terminalisti portuali si caratterizza per lo svolgimento di operazioni effettuate servendosi dell’ausilio di attrezzature di sollevamento talvolta molto complesse – come complesse sono spesso le operazioni di sollevamento e trasporto sia per lo scarico che per il carco delle navi – pare opportuno chiedersi come la giurisprudenza nazionale consideri tali attività rispetto al dettame normativo previsto all’art. 2050 c.c.
Ebbene, la casistica giurisprudenziale italiana, seppur risalente e limitata ad un esiguo numero di pronunce, parrebbe – ad oggi – considerare le operazioni portuali di carico e scarico nave e, soprattutto, le attività svolte a mezzo di strumenti di sollevamento (quali, a titolo esemplificativo, le gru), quali attività pericolose ai sensi dell’art. 2050 del codice civile.
Di conseguenza, è bene che gli operatori del mondo portuale prestino grande attenzione all’attuale disciplina codicistica di cui al sopracitato articolo 2050 c.c.. Ciò, non solo nell’esecuzione delle attività operative del proprio day-by-day, ma, preliminarmente, anche in sede di conclusione dei contratti assicurativi diretti a coprire la propria responsabilità.
In particolare, se riflettiamo sullo scenario che caratterizza e contraddistingue le operazioni portuali, anche alla luce del continuo miglioramento delle tecnologie in materia di sicurezza, parrebbe corretto, ad avviso di chi scrive, ritenere che l’operatore di settore debba essere sempre dotato delle c.d. “Best Available Technologies”, e cioè di quella che si identifica come la migliore tecnologia disponibile per lo svolgimento della propria attività. Ciò al fine di, quantomeno, tentare di rimanere esente da responsabilità in caso di sinistro.
Ora, data la stringente interpretazione che la giurisprudenza sembrerebbe dare della disciplina dettata dall’art. 2050 c.c., pare in questa sede opportuno ribadire che tutti gli operatori debbano tenere conto sempre – anche sotto questo punto di vista – della propria dotazione di mezzi ed attrezzature, e che inoltre prestino la dovuta attenzione nella copertura assicurativa della propria responsabilità derivante dall’esercizio di un’attività che – come abbiamo visto – la magistratura italiana tende a considerare “pericolosa”.
Il tutto tenendo bene a mente che la prova liberatoria per andare esenti da responsabilità in caso di sinistro, parrebbe consistere – come si dice in questi casi – in una “probatio diabolica” per l’operatore terminalista.
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