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Oltre trentamila società di capitali a rischio per la transizione ecologica

MILANO – Sono 35.000 le società italiane che potrebbero non reggere l’urto degli investimenti necessari a riconvertire i processi di produzione e uniformarsi agli obiettivi europei di emissioni zero al 2050. La transizione è però, al contempo, anche una grande opportunità, con un potenziale di investimento di 20,6 miliardi di euro per la trasformazione sostenibile dell’industria del nostro Paese. A dirlo è l’indagine “Il rischio di transizione nel sistema produttivo italiano” condotta da Cerved su 683.000 società di capitali, che coprono circa l’80% del fatturato totale delle aziende e 10 milioni di addetti complessivi.

I processi di riconversione richiederanno infatti ingenti investimenti per circa 57.000 società (l’8,4% del campione) che danno lavoro a 1,3 milioni di addetti e in cui si concentrano 285 miliardi di euro di debiti finanziari, poco meno del 31% di tutto il sistema delle imprese. Di queste, 35.000 (il 5% del campione), stando agli score di rischio creditizio e ai bilanci, non avrebbero i fondamentali necessari per sostenere gli investimenti senza compromettere il proprio equilibrio finanziario.

“La transizione verso un modello più sostenibile – commenta Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved – è una straordinaria opportunità per promuovere un salto tecnologico all’interno del nostro sistema produttivo, ma implica dei rischi che dobbiamo conoscere e misurare, per guidare il cambiamento. Sappiamo che per molte imprese questo passaggio sarà difficile, ma abbiamo anche stimato un potenziale di investimenti pari a 20,6 miliardi di euro da parte di 22.000 società con fondamentali sani, in settori che richiederanno trasformazioni profonde”.

Questo potenziale potrebbe essere ulteriormente rafforzato impiegando in modo opportuno le risorse del PNRR. “I fondi – continua Mignanelli – potrebbero essere usati per supportare processi di riconversione sostenibile di PMI con difficoltà finanziarie a causa del Covid, ma con prospettive interessanti, in grado di generare valore nel medio periodo”. Fondamentale sarà anche il ruolo degli imprenditori, che secondo Mignanelli “dovranno misurare i propri progressi e certificare la sostenibilità della propria azienda con score e rating ESG, anche per intercettare la grande massa di risorse finanziarie alla ricerca di target sostenibili. L’evoluzione verso modelli pienamente aderenti ai criteri ESG è una strada obbligata per tutte le PMI italiane. E Cerved, con i servizi dedicati, è al fianco delle imprese in queste sfide”.

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Le classi di rischio “molto alto” e “alto” comprendono i settori a maggiori emissioni, che per continuare a operare dovranno intervenire pesantemente e riconvertire la produzione, o ristrutturare gli impianti, come quelli legati all’estrazione, lavorazione e commercializzazione di combustibili fossili (in dismissione), alla produzione di energia elettrica da fonti non rinnovabili, all’industria pesante, alla filiera agricola. Sono in tutto 57.498 aziende (di cui 3.948 mila a rischio “molto alto” e 53.550 a rischio “alto”), pari all’8,4% di quelle censite, impiegano circa 1,3 milioni di dipendenti (il 12,5% del totale) e sono esposte con il sistema creditizio per oltre 285 miliardi, il 30,8% dei debiti finanziari complessivi.

I settori a rischio “medio” comprendono invece la gran parte delle attività manifatturiere che, seppur interessate in misura minore dalle nuove regole, dovranno comunque ridurre l’impatto ambientale attraverso investimenti di adeguamento: circa 130.000 imprese (il 19,1% del campione), con 2,6 milioni di addetti (26,1%) e 231 miliardi di debiti finanziari (25%).

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Le province che nei prossimi anni potrebbero subire i maggiori costi della riconversione produttiva, perché specializzate in attività con elevate emissioni, sono quasi tutte al Sud: Potenza, dove si concentra l’industria dell’automotive, e Taranto, su cui pesa la lavorazione dell’acciaio (in entrambe, quasi il 30% degli addetti opera in settori critici), seguite da Chieti, Campobasso, Avellino, Frosinone, Livorno, Terni e Aosta, dove la percentuale di lavoratori impiegati in imprese a rischio transizione alto o molto alto vanno dal 27,7% al 19,3%. Siracusa è penalizzata del peso occupazionale dell’industria petrolchimica (21,3%), mentre Ragusa (22%) e Grosseto (21,1%) figurano ai primi posti nel comparto agricolo e dell’allevamento.

Molte di queste province potrebbero non disporre di margini di indebitamento adeguati per investire nella riconversione ecologica degli impianti produttivi. I casi più emblematici sono quelli di Potenza, Taranto, Chieti e Campobasso: le prime due hanno mantenuto stabile il potenziale di investimento dopo la pandemia, mentre le ultime hanno visto un’ulteriore restrizione delle risorse. Tra i territori più esposti ve ne sono però alcuni che dispongono di una capacità di investimento superiore alla media nazionale, come Ragusa e Crotone.

 

% addetti a rischio transizione % Margine indebitamento su attivo
ITALIA 12,6% 2,8%
POTENZA 29,4% 0,3%
TARANTO 29,3% 0,6%
CHIETI 27,7% 1,7%
CAMPOBASSO 26,0% 1,3%
ORISTANO 25,4% 1,7%
FROSINONE 22,9% 0,8%
AVELLINO 22,8% 1,0%
LIVORNO 22,2% 1,8%
RAGUSA 22,0% 3,0%
TERNI 21,5% 1,1%
SIRACUSA 21,3% 0,7%
GROSSETO 21,1% 0,8%
BRINDISI 20,4% 0,8%
AOSTA 19,3% 1,2%
CROTONE 19,2% 4,9%
Pubblicato il
12 Marzo 2022

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