Suez: perché il Mediterraneo rischia di diventare un “lago”
Le navi girano intorno all'Africa e ci tagliano fuori. Ora però...
LIVORNO. L’ultimo report di Assoporti pubblicato in tandem con Srm, il centro studi che appartiene al cosmo di Banca Intesa, racconta qualcosa che rischia di sconvolgere il Grande Gioco delle rotte planetarie: fra l’ottobre 2023 e il dicembre scorso – cioè nell’arco di appena 14 mesi – le flotte hanno preso a girare al largo da Suez, e dunque di fatto a evitare di entrare nel Mediterraneo, per scegliere invece di circumnavigare l’Africa passando dal Capo di Buona Speranza.
Le cifre parlano meglio di qualunque cosa: misurandole con il “metro” delle tonnellate di stazza lorda, le navi che hanno scelto Suez sono crollate giù del 72,7% (da 143 milioni di tonnellate a 39) mentre, al contrario, la decisione di circumnavigare il continente africano ha riguardato nel dicembre 2024 quasi l’85% delle navi (sempre in termini di stazza lorda) e perciò ha fatto un balzo del 71,1%, salendo da 128 milioni di tonnellate a 219. Tradotto: non c’è solo una diminuzione del flusso complessivo di navi (attorno al 5%), c’è soprattutto un cambiamento radicale delle direttrici marittime.

Elaborazione sulla base di infografica di Assoporti-Srm
LA ROTTA SENZA SUEZ: ECCO I MOTIVI
Dietro non si intravede una trasformazione geoeconomica. Anzi, i noli non saranno alle stelle come nell’era Covid ma non c’è nessun armatore che mandi volentieri a zonzo le proprie portacontainer a bruciare inutilmente carburante: oltretutto sulle coste africane, tanto lato Oceano Indiano che versante Atlantico, pochissimi scali possono garantire volumi di carico adeguati a un tale allungamento degli itinerari marittimi. Senza contare che in 14 mesi la potenza commerciale-industriale del Sud Europa ha preso sì qualche sberla ma non è precipitata nell’abisso perdendo tre quarti della propria forza.
Cosa è accaduto? Colpa del Medio Oriente in fiamme: nel durissimo scontro fra Iran e Israele, ecco l’attacco stragista di Hamas ai kibbutz ebrei, la terrificante reazione di Netanyahu con il pazzesco mattatoio di Gaza, la guerra alla frontiera libanese con il coinvolgimento di Hezbollah, gli omicidi mirati di leader iraniani probabilmente per mano israeliana. La risultante spunta a 2.200 chilometri da Gaza, nel golfo di Aden. Gli houthi, una milizia yemenita filo-Iran, sono entrati a gamba tesa sul ring mediorientale: hanno capito che l’Occidente, accusato di dare copertura politica ai bombardamenti israeliani di Gaza, poteva esser colpito facilmente nel trasferimento di merce dall’Estremo Oriente al Mediterraneo attendendone le navi nei pressi di Suez o comunque del Mar Rosso. In particolare, all’altezza dello stretto di Bab el-Mandeb: a un passo da Gibuti, così strategica da ospitare – oltre che la base militare italiana, quella nipponica e quella francese – il più grande insediamento militare Usa in Africa e il primo avamposto cinese realizzato all’estero.

Mappa tratta da Corriere della Sera
Gli houthi ci appaiono come una novità recentissima nell’arcipelago filo-ayatollah? Ma solo perché siamo distratti: è vero ch nell’archivio del “Corriere della Sera” non c’è una riga prima del 2007 ma già prima dell’era Covid in una dozzina di anni si contavano 83 articoli in cui compariva questa milizia. A dire il vero, però, è sulla scena dall’inizio degli anni ’90.
Del resto, non è una novità: la presenza di pirati in zona esiste da tanto tempo. Per dirne una: l’armatore livornese D’Alesio si è ritrovato con una nave assaltata nell’autunno 2011 (e un ex voto nella gallery del santuario di Montenero). Però in tutto il decennio precedente e in quello successivo, Suez può aver patito ma solo l’eccesso di affollamento e l’inadeguatezza infrastrutturale all’aumento dei traffici.
BASTA LA MINACCIA, ANCHE SENZA SPARARE
Dunque, gli houthi c’entrano come pericolo terroristico prima ancora di sparare un colpo: c’entrano come minaccia che sale di rango, e da gang di banditi diventa milizia guerrigliera. È un attimo e il rischio va in codice rosso perché a questo punto la minaccia non è più quella di una banda di delinquenti bensì qualcosa che ha a che fare con la logica della “terza guerra mondiale a pezzi” (copyright papa Francesco) dentro questo “mercato della paura” che impazza ovunque perché ormai ovunque ci si aspetta il divampare di un focolaio (qui può essere utile il link a un brano, pubblicato da “la Repubblica”, tratto dal libro di Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo, “Il mercato della paura”)
Beninteso, non è solo paura immaginata. A moltiplicare i rischi reali è anche l’utilizzo di droni. Se pensate che le nuove tecnologie militari siano fuori dalla portata di miliziani analfabeti, imbevuti di catechismo fondamentalista in qualche madrassa, dovreste tener presente che in realtà, solo per fare un esempio, il ranking dell’ateneo palestinese Al-Quds o l’università di Dubai hanno una qualità paragonabile a quella di università italiane come Parma o Bergamo e il Politecnico di Giordania ha un prestigio giudicato al livello di Milano Bicocca (e questo senza voler fare di questa o quell’università una sorta di camp per terroristi). Di più: il giornale on-line statunitense “Axios” riportava nel novembre scorso che Bill LaPlante, sottosegretario alla Difesa per l’acquisizione di armamenti nella “squadra” a stelle e strisce dell’era Biden, si diceva «scioccato» dopo aver visto l’evoluzione degli houthi «negli ultimi sei mesi».

Scorta militare a una nave nel mar Rosso
Ma, lo ripeto, avete avuto notizia di centinaia di portacontainer affondate a colpi di missili, razzi qassam o droni assassini? No, perché non importa affondare quanto minacciare. Tradotto: nel giro di poco tempo, sono schizzati all’insù i costi delle polizze per le navi al punto da non rendere così fuori mercato un giro larghissimo attorno all’Africa con un dispendio extra di giorni e carburante.
SENZA SUEZ NON C’E’ MEDITERRANEO
Dribblare Suez, però, comporta una cosa: a meno che non si tratti di merci destinate ai porti spagnoli, greci, turchi o italiani, il flusso dall’Estremo Oriente arriverà in Europa da nord anziché da sud. Dal Northern Range (da Le Havre a Amburgo) invece che dal Mediterraneo. Accadeva già spesso così, ora ancor di più. Non bisogna aver studiato a Oxford per capire che o Suez in perfetta efficienza e ancor più perfetta sicurezza o noi porti del Mediterraneo siamo tagliati fuori. Suez è assolutamente essenziale per garantire un futuro alla portualità del Mediterraneo, e quella made in Italy nella fattispecie.
Nel gennaio dello scorso anno, l’ultimo rapporto “Linerlytica” citato da “ShipMag” segnalava che «sono oltre 350 le navi portacontainer costrette a cambiare rotta verso il Capo di Buona Speranza a causa della crisi che sta colpendo il Mar Rosso». In cifre: 4,65 milioni di teu, praticamente «il 16,4% del volume globale flotta» e pari all’«80% di tutte le navi portacontainer che si spostano tra Atlantico-Mediterraneo e l’Oceano Indiano».
Questo “dirottamento” verso la circumnavigazione dell’Africa comporta – dice “Shipping Italy” sulla base di un dossier degli analisti di Bcg – «un aumento del 30% nei tempi di trasporto e un innalzamento delle tariffe di spedizione fino a sette volte rispetto ai livelli precedenti la crisi». Il ritorno alla normalità, quando? La crisi potrebbe allungarsi «fino al 2026, con ulteriori impatti sul commercio globale». Quanto alle direttrici alternative, ci sono tentativi di passare da India e Medio Oriente (ma senza riscontro immediato) o sul passaggio al trasporto aereo, magari via Emirati (ma non è fattibile per le merci a basso valore e alto volume).

Il mar Rosso, al centro lo stretto di Bab el-Mandeb e, in alto, il canale di Suez
L’équipe di Bcg mette sul tavolo un poker di scenari. Ad esempio, una escalation militare con gli houthi che alzano ancor di più il tiro e moltiplicano gli attacchi mentre l’Occidente risponde in modo altrettanto pesante: in questo caso, si ipotizza che questa quasi-guerra locale possa concludersi entro fine anno ma le grandi compagnie comincerebbero a cercare alternative a Suez per non essere più così vulnerabili. Una ulteriore previsione guarda a una situazione che né peggiora né migliora: ma il fatto che il rischio covi sempre sotto la cenere e questo creerebbe una insicurezza tale da spingere gli operatori a spostare una certa quota di traffici su altre rotte. In direzione opposta è una terza visione che immagina l’espansione della guerra fino a causare il blocco totale di Suez con le navi obbligate a girare intorno all’Africa: per gli analisti ne deriverebbe una mezza batosta alla domanda di trasporto dall’Estremo Oriente all’Europa (meno 2%) bruciando un punto percentuale del Pil a livello planetario.
LA “PACE” DI GAZA E L’ULTIMO SPIRAGLIO
C’è anche la quarta carta da giocare e riguarda un progressivo smorzarsi delle tensioni: i contenitori in buona misura riprenderebbero la via di Suez, magari con cautela, con ripresa della normale navigazione nel giro di questi mesi.
Ecco, lo stop alle bombe su Gaza e, sia pure con una fatica enorme (in mezzo a lampi di delirio provocatorio come il video trumpiano su Gaza-Miami), una qualche forma di congelamento se non di pace: tutto questo potrebbe dare agli houthi il destro per smetterla e ritirarsi dal golfo di Aden. Gli ultimi segnali sembrano che la “pace” in Medio Oriente stia aprendo qualche spiraglio (1, segue)
Mauro Zucchelli