Nell’economia del mare Livorno è quasi da Champions
Occhio al rischio che diventi un boomerang fra precariato e posti mal pagati
LIVORNO. Ad eccezione di Trieste, non esiste nessun altro territorio in tutta Italia in cui, in rapporto all’intero sistema economico nella sua globalità, l’ “economia del mare” abbia un peso specifico maggiore che nella provincia livornese relativamente alla creazione di valore aggiunto, il “metro” principale per misurare la “ricchezza” prodotta (da tradurre in termini di nascita di imprese, creazione di posti di lavoro e distribuzione di redditi). E, detto per inciso, anche Trieste sorpassa Livorno ma praticamente d’un niente.

Si tratta di dati che i ricercatori della Camera di Commercio hanno ricavato da dati Unioncamere-Centro Studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne C-Stat
In quella striscia di Toscana costiera che dal confine con Pisa arriva a sud di Piombino e si allarga a gran parte delle isole dell’Arcipelago Toscano. Stiamo parlando di un valore di 1,54 miliardi di euro per l’insieme delle attività “blu”, cioè quella galassia di realtà imprenditoriali che abbracciano tanto la portualità come la pesca o l’acquacoltura così come la cantieristica navale o il turismo costiero ma anche la logistica marittima, oltre alla protezione dell’ecosistema, alla generazione di energia o alla valorizzazione delle risorse (biologiche e non biologiche) più la ricerca marina. In pratica, a Livorno e provincia più di un euro ogni sei arriva da questo campo di attività così sfaccettate eppure così inequivocabilmente contraddistinte da un unico aspetto comune: il mare.
Il peso specifico dell’ “economia blu” lo si vede in quel 17,6% del valore aggiunto complessivo che questo settore è stato in grado di creare, secondo l’ultimo report di Ossermare e Unioncamere in grado di “fotografare” le cifre fino a fine 2022. Ma non c’è solo la ricchezza prodotta: se guardiamo ai posti di lavoro relativi a questo campo, Livorno è al terzo posto in Italia con 21.162 addetti, di fatto il 15,3% degli occupati. In proporzione all’economia locale, solamente a Rimini e a Genova il mare dà più lavoro. Qualcosa del genere vale anche se ci mettiamo a contare il numero delle imprese: 4.343, dice il rapporto nazionale segnalando che questo vale a Livorno il terzo posto nel sistema Paese, alle spalle di La Spezia e Rimini. In provincia di Livorno poco meno del 14% delle imprese appartengono a questo segmento.

La presentazione della Biennale del mare a Livorno: l’intervento del prefetto Dionisi, accanto a lui il sindaco Luca Salvetti
Dev’esserci anche questo – forse soprattutto questo – dietro l’idea di puntare sulla Biennale del mare da parte delle istituzioni livornesi. E addirittura in misura più rilevante di quanto affermi il sindaco labronico Luca Salvetti nella conferenza stampa di presentazione del cartellone dell’iniziativa: lui parla di città «all’ottavo posto a livello nazionale» sul fronte della blue economy, in realtà siamo fra il secondo e il terzo, a seconda di quale parametro si usa. Accade però se dalla città allarghiamo lo sguardo a livello provinciale, e stavolta emerge una caratteristica unica: non c’è provincia che abbia un così grande sviluppo della linea di costa e che abbia l’intero territorio così vicino al mare.
Basta far mente locale per capirlo: il territorio provinciale livornese è una lingua di terra che si allunga su cento chilometri di costa e include tante piccole isole, la più grande delle quali è l’Elba. Pochissimi punti sono distanti dal mare più di una dozzina di miglia. Facile capire perché Livorno è la provincia con il maggior numero di chilometri in riva al mare, soprattutto se paragonati alla dimensione complessiva del territorio. Come dire: per una volta è una ricchezza, una grande ricchezza, il fatto che il territorio provinciale sia stato disegnato in questo modo astruso, l’unico posto in cui due porti di rango nazionale stiano dentro la stessa provincia (anche se ora Piombino ha ripescato dal passato l’idea di finire sotto Grosseto: e tutto dipende da una ricerca di autonomia nella gestione del porto, senza avere idea di quali siano le dinamiche della concentrazione delle istituzioni portuali).
Però la geografia di per sé è tutt’al più una dote di partenza: occorre qualcosa di più per tradurla in valore aggiunto, ricchezza da redistribuire, posti di lavoro e predisposizione di un ecosistema che favorisce la nascita di imprese.
Quando pensiamo all’ “economia del mare”, troppo spesso abbiamo la tentazione di rinchiuderci fra gru e banchine, navi da far arrivare e merci da spedire. Il porto è il “mestiere” che sa fare Livorno: si diceva che era “la Fiat di Livorno”, salvo accorgersi adesso che forse se l’è cavata meglio e andatelo a dire ai torinesi cos’è la Fiat oggi come oggi. Il settore della ricerca scientifica attorno agli ambienti marini che sta mettendo insieme qualche tassello interessante forse non avrà ancora numeri paragonabili a quelli degli addetti del porto, ma è una bella novità. Non solo: già oggi il numero di lavoratori che orbitano fra le banchine e gli uffici correlati sono di gran lunga meno dei ragazzi e delle ragazze che s’inventano un reddito fra pizzerie, pub, stabilimenti balneari e localini in riva al mare. Magari da qui a una busta paga vera e propria, oppure al contratto definitivo c’è parecchia strada da fare, ma…
Ecco, a proposito di questo. C’è anche un altro aspetto, e i ricercatori dell’ente camerale fa bene a metterlo in evidenza in un riquadro a sé: è la questione salariale principalmente nel turismo, uno dei pilastri della “economia nel blu dipinto di blu”, dove primeggiamo o quasi eppure mica tutto è così azzurro.
Il dossier, pur avvertendo che «la situazione è senza dubbio complessa e le variabili in gioco sono davvero molte per poter esaurire l’argomento in questa sede», punta il dito contro il problema dei «bassi salari dei lavoratori del turismo, spesso accompagnata dalla precarietà contrattuale». Il tema salta fuori talvolta perché risulta difficile trovare lavoratori che accettino di prestare la propria opera con tali buste paga. In effetti, il settore è di fatto «accusato di non trasferire sui lavoratori gli incrementi di fatturato». Bisognerebbe aprire mille parentesi, ma le cifre parlano piuttosto chiaro: i dati Istat dicono che «dal 2015 ad oggi» nei servizi di alloggio e ristorazione i prezzi «sono aumentati del 21,9%, le retribuzioni del 5% ed i prezzi al consumo del 18,5%». In concreto, togliendo dal conto l’effetto inflazione, i lavoratori hanno perso potere d’acquisto, invece il settore ha visto crescere i guadagni del 3,4%.
Mauro Zucchelli