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INDAGINE CCIAA

Cercasi start up livornese disperatamente

L’innovazione non abita qui (ma forse ora qualcosa si muove)

LIVORNO. No, Livorno non è un paese per vecchi ma nemmeno per giovani o per bambini: parola dell’ultima indagine del quotidiano confindustriale “Sole 24 Ore” sulla qualità della vita. Ma, a dirla tutta, non è neppure un paese per start up innovative: in una sotto-classifica dell’ultima edizione di questo speciale “termometro”, Livorno – la provincia tutta intera, non la sola città capoluogo – finisce al 77° posto con quattro aziende catalogabili come “start up innovative” ogni mille società di capitali nell’ “anagrafe” della Camera di Commercio.

Eppure è possibile notare che qualcosa si muove: fra i reparti di ricerca & sviluppo, le imprese di punta nel settore ultratech, i laboratori di realtà collegate al sistema degli atenei pisani che hanno messo radici a Livorno, tutto questo mette insieme una sorta di “fabbrica della ricerca” che vale almeno 300 addetti. Con un cambio di paradigma: a Livorno non c’era mai stato niente del genere se pensiamo che l’innovazione era stata tutt’al più la scaltrezza di mestiere che in qualche stabilimento aveva fatto germogliare in qualche operaio la scelta di mettersi in proprio e farsi imprenditore, soprattutto metalmeccanico.

A un passo dalla zona retrocessione

Però i dati sono quelli: settantasettesimo posto su 107. A questo punto c’è da immaginarselo: non proprio zona retrocessione ma quasi, sotto Livorno nient’altro che le realtà più afflosciate del Mezzogiorno. E invece no, dietro Livorno c’è mezza Toscana: Arezzo all’85° posto, Grosseto al 90°, Massa Carrara al 92°, Pistoia al 95° e Prato al 104°. Non può non destare qualche timore sullo stato di salute del modello economico toscano il fatto che, se dividessimo la classifica in tre, ben sette province toscane le ritroveremo nell’ultimo raggruppamento dei tre della classifica compilata in basse alla percentuale di start up innovative. Si salvano solo: Lucca che finisce al 47° posto, Firenze al 39° e soprattutto Pisa al 20°.

Sembra un dato strutturale: se torniamo all’analoga indagine del 2016, ma con le start up in rapporto non alle sole società di capitale bensì al totale delle imprese, rieccoci a fare i conti con la provincia di Livorno laggiù al 70° posto. E di nuovo con mezza Toscana sotto i piedi: Lucca al 77° posto, Pistoia all’87°,  Prato al 92°, Massa Carrara al 97° e Grosseto al 106°.  C’è qualcosa che non va, e non riguarda solo Livorno: è un problema che ha a che fare con l’arcipelago industriale della piccola impresa toscana, che in passato è stato una formidabile macchina da export. Si salva anche in questo caso Pisa (addirittura fra le prime dieci in tutta Italia).

Quest’ultima sottolineatura ci racconta una cosa: gli sfottò campanilistici stanno bene in curva guardando il pallone e basta lì. Per il resto il sistema produttivo livornese ha davanti a sé un aut aut: o ce la fa a mettere a testa sulle logiche di funzionamento (anche arzigogolato) delle tre università di Pisa o è destinata a concentrarsi sulle produzioni già mature e già destinate a fare la valigia per essere reimpiantate in altre zone d’Europa o del bacino mediterraneo.

Vedi alla voce start up: i requisiti

Beninteso, la catalogazione come start up innovativa non è una sorta di auto-patente. Le norme indicano un griglia di parametri specifici per dire chi rientra nella categoria e chi no. Dicesi “start up innovativa” l’impresa che ha questo identikit:

  • età: non più di cinque anni di vita;
  • sede principale: in Italia, o in un Paese dell’UE o in Stati aderenti all’accordo sullo Spazio economico Europeo, purché abbia una sede produttiva o una filiale nel nostro Paese;
  • valore annuo della produzione: inferiore a 5 milioni di euro;
  • utili: l’impresa in oggetto non li distribuisce e non li ha mai distribuiti;
  • oggetto sociale esclusivo o prevalente: lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico;
  • modalità di costituzione: la startup innovativa non deve essere nata da fusione, scissione societaria o a seguito di una cessione di azienda o di ramo di azienda;
  • quotazione in borsa: non dev’essere quotata in un mercato regolamentato o in una piattaforma multilaterale di negoziazione.

Non basta. Servono anche «almeno uno» dei seguenti requisiti ulteriori per beneficiare dello “status” di start up innovativa:

  • spese in ricerca & sviluppo e innovazione: sono pari ad almeno il 15% del maggior valore tra fatturato e costo;
  • personale altamente qualificato: almeno un terzo dei dipendenti dev’essere dottore di ricerca, dottorando o ricercatore;
  • brevetti: è titolare, depositaria o licenziataria di almeno un brevetto o titolare di un software registrato.

Ne creare questa griglia il legislatore ha badato a una serie di obiettivi: contribuire allo sviluppo di una nuova cultura imprenditoriale; creare un contesto maggiormente favorevole all’innovazione; promuovere maggiore mobilità sociale e attrarre talenti in Italia e capitali dall’estero (e dunque, «per favorire il perseguimento di questi obiettivi», non c’è «nessun limite alla tipologia settoriale di appartenenza dell’impresa»).

La sede della Camera di Commercio della Maremma e del Tirreno a Livorno

I dossier del centro studi della Camera di Commercio

Questa fisiognomica che disegna il volto di una start up innovativa la prendiamo da una indagine che il centro studi ricerche della Camera di Commercio della Maremma e del Tirreno – quartier generale a Livorno, presidente Riccardo Breda – ha compiuto sul «totale start up innovative iscritte nella sezione del Registro Imprese appositamente dedicata, alla data dell’8 aprile 2025». In totale «ammontano a 48, delle quali 29 hanno sede in provincia di Livorno e 19 in quella di Grosseto»: sono in aumento, ma «soprattutto a Grosseto». Anzi, a dirla tutta i dossier recenti sono due: l’altro scatta una istantanea alla situazione della primavera 2023.

Quasi due aziende su tre sono nel settore servizi nel territorio dell’ente camerale che, lo ricordiamo va da Camp Darby fino all’Amiata e ai confini con il Lazio (17 su 29 in provincia di Livorno). E qui è semplice: software da produrre, la galassia della consulenza informatica, anche ricerca scientifica e ingegnerizzazione o trasferimento tecnologico. Il vecchio imprinting industriale livornese salta fuori in certa misura nelle start up: una decina di quelle labroniche, dunque una su tre, appartengono al recinto dell’industria e dell’artigianato: è un manifatturiero che, compresa le altre tre dell’area maremmana, si occupa di fabbricare prodotti alimentari, apparecchiature elettriche, prodotti chimici, articoli in gomma, “altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi”, “altri mezzi di trasporto”, prodotti di elettronica, prodotti in legno e sughero, prodotti in metallo.

Basta appena più di una sola mano per contare le start up in “rosa”, cioè con la maggioranza di donne nella proprietà e/o nelle cariche amministrative: sono sei in tutta l’estensione del territorio livornese e grossetano. E poi: una sola dichiara una “vocazione sociale” (si occupa di software ed è livornese). Ancora: sono nove le start up in cui la maggioranza di quote e incarichi sia in mano a under 35, e sono tutte in provincia di Livorno eccetto una.

Lo studio dell’ente camerale indica anche il requisito prevalente:

  • il 50% ha almeno il 15% dl fatturato (o dei costi annui) «imputabile a attività di ricerca e sviluppo»: 13 sono in provincia di Livorno (erano 16 due anni prima);
  • il 25% ha il proprio personale costituito «per almeno un terzo da dottorandi, dottori di ricerca o ricercatori» (o «almeno due terzi dei soci o collaboratori hanno in tasca la laurea magistrale): cinque sono in provincia di Livorno (erano due nel dossier precedente);
  • il 27% è depositaria o licenziataria di brevetto registrato (privativa industriale) o software: 12 sono in provincia di Livorno (erano 11 nell’altra ricerca).

I ricercatori del centro studi segnalando che sono in crescita le start up in possesso dei primi due requisiti.

Mal comune, il “mal di capitale”

Al contar dei noccioli, resta però un problema tutt’altro che marginale: il capitale sociale rimane inchiodato al di sotto dei 10mila euro in ben più della metà dei casi (53,7%): fino a 5mila euro una su dieci, fra 5 e 10mila euro quasi il 44%.

Al di sopra dei 100mila euro ancora troppo poche: sei imprese, sembra di poter dedurre: 6,3% quelle con capitale sociale da 100mila a 250mila euro, il 4,2% nella classe 250-500mila euro e solo due punti percentuali e spiccioli, cioè esclusivamente una, oltre i 500mila euro.

Rimane ancora tanta strada da fare ma qualche passo in avanti è stato fatto in materia di irrobustimento delle “spalle” finanziarie: nello studio relativo alla “fotografia” scattata nel marzo di due anni fa, potevano contare su un capitale sociale fino a 10mila euro l’82% delle start up con “targa” livornese. Mancava quasi del tutto (erano solo 4 imprese) la fascia fra 10 e 100mila euro, ora rappresentano un terzo dell’insieme. Non solo: c’era una sola realtà con capitale oltre quota 100mila euro, adesso sono una su otto. Ancora poche, si diceva. Poche ma qualcosa.

Il problema rischia di essere l’ “intelligenza naturale”

Chissà se in tutto questo c’entra la fragilità del bagaglio di istruzione che i livornesi hanno alle spalle: più di una persona su quattro (25,8%) fra gli abitanti in provincia di Livorno in età 25-49 anni ha tutt’al più la licenza media o anche meno (nel senso che, bocciando più volte, potrebbe aver completato l’obbligo scolastico per raggiungimento dell’età, non per il conseguimento della licenza). Non c’è da andarne orgogliosi: in una elaborazione del “Sole 24 Ore” su dati Istat Livorno figura nella metà bassa della classifica nazionale, al 59° posto (su 107). Nella metà d’Italia che sta a nord di Roma, ci sono però venti territori che se la cavano peggio, e non sono economicamente gracili: parliamo di Modena e Reggio Emilia, di Brescia e Bergamo.

Però questa debolezza del capitale umano ce la ritroviamo, sempre in dati Istat sotto la lente del quotidiano  confindustriale, con un numero di laureati e titoli Its post-diploma che arriva al 24,2% fra quanti hanno un’età compresa fra 25 e 39 anni. Vi sembrano tanti? Solo perché non avete dato un’occhiata a quel che accade in provincia di Pisa (dove sono quasi il 35%), oppure a Trieste (dove superano il 41%) o Bologna (più del 45%). Tornando a guardare quanto accade nel Centro Nord, non più di una quindicina di province hanno un così basso numero di laureati e dintorni.

Mauro Zucchelli

Pubblicato il
8 Giugno 2025
di MAURO ZUCCHELLI

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