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IL LIBRO DI EUGENIO GIANI

Nome: Pietro Leopoldo. Professione: granduca riformatore. Un quarto di secolo per cambiare la Toscana che fu

Nel dipinto di Pompeo Batoni, da sinistra, Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, con il fratello imperatore d’Austria Giuseppe II

LIVORNO. Ce ne vuole a un livornese, con il cuore ancora sulle disperate barricate di porta San Marco nelle giornate della difesa di Livorno dalla prepotenza dell’impero austriaco, per digerire che un Asburgo-Lorena stare nell’Olimpo dei grandi padri della Toscana. Ma Eugenio Giani, presidente della Regione Toscana, non ha dubbi e mette Pietro Leopoldo insieme a Cosimo I  come simbolo della nostra storia. Lo fa, in nome della ben nota passionaccia per la storia, per rivendicare che «la Toscana è l’unica regione del nostro Paese» a esser nata come territorio grossomodo come quello attuale secoli prima che arrivasse l’unificazione d’Italia e, a maggior ragione, prima del regionalismo anni ’70 che ne ha fatto anche una realtà politico-istituzionale.

A differenza del Meridione sotto la corona delle Due Sicilie o di una larga parte di Centro Italia sotto il papato (senza contare il regno sabaudo e le sorti della Lombardia col Triveneto), la Toscana c’era già: gioco forza, bisogna andarne a cercare le tracce prima di Garibaldi e Cavour. Ecco perciò il riferimento a un leader della dinastia dei Medici e a uno del casato degli Asburgo-Lorena. Prima a Cosimo I (“padre della Toscana”) e ora a Pietro Leopoldo (“Il granduca delle riforme”) Giani ha dedicato un libro, entrambi pubblicati dalla casa editrice fiorentina Giunti: per presentare il volume sul granduca settecentesco  la Camera di Commercio guidata dal presidente Riccardo Breda lo ha ospitato a Livorno nella sede del seicentesco Palazzo della Dogana.

La Camera di Commercio l’ha inventata lui

Non è esattamente la prima presentazione, «saremo forse alla numero 100», dice Breda. Ma pure il luogo è ad alto tasso simbolico, come spiega Giani a conclusione dell’evento (iniziato con oltre un’ora di ritardo, «colpa del tour de force della campagna elettorale», dirà il “governatore” scusandosi): la grinta riformatrice di Pietro Leopoldo l’ha spinto a inventare la Camera di Commercio come “casa unica” di tutte le attività economiche spazzando via le incrostazioni di un ordinamento fatto di “magistrature separate” con le 21 corporazioni.

La presentazione del libro dedicato a Pietro Leopoldo. Da sinistra: Riccardo Breda, presidente della Camera di Commercio della Maremma e del Tirreno; Eugenio Giani, presidente della Regione Toscana; Luca Salvetti, sindaco di Livorno

La sfida per Giani sta proprio in questo: Pietro Leopoldo non è “Canapone” che chiamerà l’esercito più potente del mondo a stroncare i sussulti rivoluzionari dei livornesi di Enrico Bartelloni, e gli Asburgo-Lorena hanno fatto davvero anche cose buone. Insomma, la “pace” con loro l’abbiamo già fatta se è vero che in piazza San Jacopo lato Accademia Navale c’è pure una statua ora restaurata e protetta da una cancellata (dopo che nell’era in cui il Livorno Calcio arrivava nei templi della serie A gli avevano verniciato sull’uniforme della flotta stefaniana una maglietta amaranto…).

Il sindaco Luca Salvetti sottolinea che nel libro la città di Livorno recita un ruolo di prim’ordine e Giani gioca di sponda: l’attenzione che dedica a Livorno si vede dal fatto che è fra le primissime visite che compie appena preso possesso della carica di granduca. Non è solo un gesto simbolico, dice il presidente-scrittore: si occuperà di ripulire i fossi, di abbattere la dogana in porto, di effettuare i dragaggi…

Schematizzando alquanto, si potrebbe riassumere così: Cosimo come l’“inventore” della Toscana attorno all’asse Firenze-Siena più l’Elba con Cosmopoli (invece che Ferdinando I che noi livornesi, per via delle “Livornine”, siamo portati a sopravvalutare); Pietro Leopoldo come quello che l’ha “reinventata” daccapo. Sotto il segno di uno spirito riformatore, che poteva contare su: 1) il soffio della novità del pensiero illuminista; 2) una maggiore libertà di sperimentare rispetto al fratello che aveva da governare una potenza mondiale ed era sotto gli occhi di tutte le teste coronate (e la nomenklatura di corte del Vecchio Continente); 3) la mancanza di una ingombrante eredità da ossequiare perché in realtà quello del padre è un non-governo tramite reggenti che si limitano al tran tran; 4) la difficile situazione economico-alimentare con ricorrenti carestie; 5) la grinta della giovane età;

L’elogio dell’ “extraterrestre” venuto da Vienna e mai stato in Toscana

Bisognerebbe mettere nel conto il fatto che questo radicale rinnovamento della Toscana arriva per opera di uno straniero: Giani lo chiama «l’extraterrestre». Anche senza pensare a E.T. o agli omini verdi, fino al giorno in cui diventa granduca appena diciottenne lui in Toscana non aveva mai messo piede. Ci arriva nel settembre di 260 anni fa. Cavandosela con una battuta: forse a stento sapeva indicare dov’era sulla carta geografica. Ma proprio per questa ragione, nel segno del chiodo fisso del motto “conoscere per decidere”, si fa scarrozzare ovunque a fare sopralluoghi anche senza Google maps. Risultato: la più vasta campagna di bonifiche che ha acquisito all’uso agricolo migliaia di ettari. Soprattutto fra l’Arno e il Tevere: in quella Valdichiana che per Leonardo Da Vinci era ancora una palude.

La carta geografica della penisola italiana ai tempi della prima guerra d’indipendenza, prima cioè dell’unificazione d’Italia

Giani lo indica come riformatore a 360 gradi: sulla base delle nuove idee dell’Accademia dei fisiocratici, cancella i dazi nel segno di una immediata mossa anti-carestie («in caso di cattiva annata del grano, la mancanza i dazi favorisce l’arrivo di carichi dai territori vicini»). Non basta: c’è da allargare la base produttiva, si direbbe oggi, e dunque punta a «recuperare nuovi terreni agricoli grazie a opere idrauliche che bonifichino le grandi paludi» (e a favorire una agricoltura che aumentasse la produttività «grazie ai mezzadri, figura a quel tempo innovativa rispetto al latifondo»).

Questo porta con sé una differente attenzione al governo del territorio, dice Giani: non più un rapporto simil-feudale ma un legame più diretto con le “comunità” (i Comuni) disseminate per tutto il Granducato. In concreto: riorganizza il territorio in trecento Comuni, ed è «una novità pazzesca per quel tempo». È praticamente «lo stesso numero di municipi che abbiamo oggi: non è così in Lombardia, che ha sì più popolazione della Toscana, ma con una estensione simile ha 1.500 Comuni, il quintuplo di noi».

Una libecciata di riforme per ammodernare il Granducato

Fra le riforme strutturali con cui Pietro Leopoldo dà un segno formidabile al suo modo di governare, Giani ne indica altre due. L’una, sul fronte della sanità: prima gli “spedali” erano una sorta di “rifugio” per tutte le fragilità, psichiatriche incluse, ma anche viandanti; con Pietro Leopoldo si trasformano in luogo di cura come lo conosciamo oggi. L’altra, in fatto di scuola: si imposta l’idea che dev’esserci una scuola pubblica. Tutti però lo conoscono per la terza scelta, ancor più radicale: il Granducato è il primo stato al mondo ad aver abolito la pena di morte formalmente e giuridicamente. «Se pensiamo – dice Giani –  che ancora oggi la metà degli abitanti del pianeta vive in zone in cui la pena di morte è realtà: e sono passati 250 anni…».

Il presidente della Camera di Commercio delle provincie di Livorno e di Grosseto, Riccardo Breda, fa gli onori di casa

Un quarto di secolo più tardi, così come la morte di un fratello secondogenito l’aveva portato a guidare la Toscana, nel 1790 la scomparsa del fratello primogenito lo richiama a Vienna a guidare l’Impero. Allo stesso modo in cui aveva riportato sotto i riflettori il Granducato rimasto per molti anni nel cono d’ombra, adesso aveva in mano la possibilità di far pesare  il proprio ruolo per riequilibrare spinte e controspinte nella geopolitica europea. Giusto mentre la Francia si incendia per la rivoluzione di Robespierre e dintorni.

Anche lì – racconta Giani nelle vesti di divulgatore storico – è un legame familiare a chiamare in causa il Nostro: la sorella Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI, è la quintessenza di quel che i rivoluzionari odiano (la frase per cui, se manca il pane, i plebei avrebbero benissimo potuto saziarsi di brioches chissà se l’ha detta davvero…). Ma il presidente-scrittore ricorda che, forse in virtù di contatti riservati con lo schieramento rivoluzionario tramite spie, fatto sta che Maria Antonietta viene giustiziata dopo che Pietro Leopoldo non c’è più.

Il grande manovratore e la “manina” che (forse) lo fa fuori

Questa capacità di reggere la scena, diventarne il punto di equilibrio e tenere contatti anche al di là delle linee, forse lo consuma o forse qualche “manina” si mette a servizio di chi vuole sbarazzarsi di quella testa coronata così importante e così ingombrante. Troppo laico, eppure credente; troppo riformatore, eppure al timone di un impero conservatorissimo. Anche Giani torna sull’ipotesi che qualcuno l’abbia avvelenato: non sposa la dietrologia ma nemmeno la cancella. Nel 1792, dopo una battuta di caccia, per una febbre improvvisa o per una tazza di veleno, Pietro Leopoldo esce di scena. Siamo pronti al nuovo round: non verrà più da Vienna bensì da Parigi e si chiamerà Napoleone Bonaparte. Ma questa è davvero un’altra storia.

Mauro Zucchelli

Pubblicato il
4 Settembre 2025
di M.Z.

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