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Olimpia Sgherri e Anna Franchi, due donne coraggio per dare valore alla scuola

La scuola media di Villa Corridi fra la Leccia e Collinaia

LIVORNO. A cavallo fra fine settembre (ieri martedì 30) e inizio ottobre (oggi mercoledì 1) a Livorno l’istituto di scuola secondaria di primo grado ha in agenda le cerimonie di intitolazione ufficiale dei plessi scolastici nel quartiere La Rosa (via Michel 8) e a Villa Corridi (via del Vecchio Lazzaretto 10): al centro dell’attenzione le figure di due donne livornesi straordinarie come Anna Franchi e Olimpia Sgherri.

È l’atto conclusivo del percorso che la scuola ha messo sulla rampa di lancio già dal precedente anno scolastico e, come segnalato dall’istituto, «condiviso sia in collegio docenti che in consiglio di istituto, sia, soprattutto con gli studenti di scuola secondaria che, nei mesi precedenti hanno avuto modo di approfondire la conoscenza di queste importanti donne livornesi».

Stiamo parlando di due figure femminili che, come viene ribadito, hanno avuto «un ruolo incisivo nella storia della nostra città, e che si sono distinte, ciascuna in ambiti e contesti anche molto diversi tra loro, per la loro forza, passione, determinazione ed impegno civico».

La scuola, motivando la scelta, mette in risalto l’intenzione di guardare a questi due esempi per «dare voce e memoria a chi, con il proprio impegno culturale e civile, ha contribuito a formare la coscienza collettiva». Di piu: farsi luoghi dove «questi valori possono essere insegnati giornalmente alle nuove generazioni, nella convinzione – questa l’argomentazione fondamentale – che proprio la scuola sia il luogo privilegiato dove piantare e coltivare semi di indipendenza, impegno civico e apertura e donazione agli altri».

La sorella di Olimpia Sgherri, Maria Rosa (la prima a sinistra), alla cerimonia di intitolazione della scuola

Olimpia Sgherri sulla tomba di Lazzaro: la fotografia durante un viaggio in Palestina (tratto dal dossier della diocesi su Olimpia Sgherri realizzato dalla sorella Maria Rosa insieme a Chiara Domenici)

Olimpia Sgherri, la “santa della porta accanto”

«Qualcuno l’ha chiamata la “Madre Teresa di Livorno”, altri l’hanno paragonata ad un angelo, ma la personalità di questa piccola grande donna è qualcosa che difficilmente si può raccontare». La diocesi di Livorno ha reso omaggio a questa figura di donna che non si è mai risparmiata nel proprio prodigarsi in favore dei più indifesi: il dossier l’ha realizzato Chiara Domenici, responsabile comunicazione della diocesi, in tandem con Maria Rosa Sgherri, sorella di Olimpia (e anch’essa assai conosciuta a Livorno per i ruoli di primo piano nel mondo della scuola e, in politica, per esser stata nel ’99 candidata sindaca alla testa della coalizione di centrodestra).

A Olimpia non importava granché mettersi sotto i riflettori: le importava che chi vedeva “crocifisso” dalla vita quotidiana, spesso dalle ingiustizie quotidiane, potesse trovare qualcuno che si arrabattava per dargli una mano, e senza stare tanto a tirarla in lungo. Del resto, negli archivi delle cronache dei giornali locali figura poco o niente, lo so per esperienza diretta che di fronte al mio taccuino di cronista ti diceva le cose ma chiedeva di «lasciar stare il mio nome, non è di me che bisogna parlare». Beata Olimpia, non ti sarebbe proprio saltato in testa di fare l’influencer, nemmeno a fin di bene.

In chi si impegna nel volontariato c’è sempre il rischio che la mano che aiuta cerchi, se non la ribalta, quantomeno la rassicurazione: sono dalla parte di chi aiuta, dunque ce l’ho fatta, mica sono un disperato come questo poveraccio. Non era lo stile di Olimpia Sgherri: mettersi al fianco di chi fa fatica significava condividerne gli affanni e le preoccupazioni, non mettersi al riparo.

Un esempio di più è il campeggio estivo di quelli che un tempo erano chiamati “handicappati” solo da chi voleva evitare definizioni assai poco politicamente corrette: eppure quando quel gruppo inventa il “campeggio di Castiglioncello” lo fa rompendo ogni barriera, infilando i ragazzi disabili in mezzo a tutti gli altri bagnanti, pure di quelli delle famiglie-bene. I ragazzi disabili non erano lasciati al rinchiuso della loro realtà ma si integravano con tutti gli altri: una battuta tira l’altra, e l’allegria è contagiosa. Dev’essere per questo motivo forse che Livorno è stato terreno di coltura per esperienze di frontiera come, solo per dirne alcune, la compagnia teatrale dei Mayor von Frinzius, l’esperienza in tv e radio nazionale del gruppo di Paolino Ruffini, gli allori di primissimo piano per una serie di sportivi disabili. Non solo “oggetto” di carità ma persone.

In effetti, per Olimpia la vocazione a questo tipo di approccio arriva da lontano: da quando aveva deciso che insieme al diploma di maestra avrebbe avuto il titolo di studio da specializzata alla scuola ortofrenica. Non basta una buona disposizione d’animo: occorre anche sapere come approcciarsi ai disabili cognitivi, ad esempio. E poi, ovviamente, manco a dirlo, trattandosi di Olimpia fare come ti detta il cuore: magari costruendo “alleanze” in nome di quella fama di “santa laica” che la accompagnava già in vita, e mica solo all’ombra dei campanili.

Resta il fatto che il punto è sempre quello della radicalità nel mettere in gioco sé stessi e i propri talenti di umanità e empatia:  si pensi al lavoro fra i baraccati di Coteto. Già, adesso sembra impossibile crederlo ma a un quarto di secolo dalla fine della guerra erano ancora presenti decine e decine di baracche realizzate con materiali di fortuna per gli sfollati o chi aveva visto la propria casa sventrata dai bombardamenti nel ’43-44. Non nell’ultra-periferia chissà dove ma in mezzo a due quartieri come Colline e Coteto, a ridosso della principale arteria cittadina.

Olimpia Sgherri al centro della foto, fra don Vincenzo Savio e Giovanni Bosi, probabilmente durante una iniziativa conviviale ai Salesiani

No, non era lì l’unico posto dove potevi trovare Olimpia nei suoi giri per dare una mano a chi aveva bisogno. Lei e la bici, sempre in movimento. La sorella sorride al ricordo: «Gliene avevano rubate tante, si era arrivati a 19: le dicevo di denunciare alla polizia il furto dell’ennesima bici, lei mi rispondeva che se l’avevano presa vuol dire che ne avevano necessità».

Troppo ingenua o fiduciosa nel prossimo? Chissà, fatto sta che non stava lì a fare il predicozzo a quanti erano straziati nel corpo dall’Aids: stava loro accanto, punto e basta. Me l’ha raccontato don Gigi Zoppi, uno che ha speso la vita di prete in trincea insieme ai tossicodipendenti e ai malati terminali: «I primi ragazzi me li mandava lei, li seguiva al dormitorio pubblico. Faceva un po’ da mamma a tanti “crocifissi” nelle pieghe e nelle piaghe della nostra città: la testimonianza in carne e ossa di cos’è l’amore di Dio per ciascuna persona». E ancora: «La sua era una solidarietà operosa e silenziosa, senza fanfare», parola di don Piergiorgio Paolini, biblista e prete. Idem monsignor Paolo Razzauti: «Una donna di preghiera e di azione che ha speso l’esistenza mettendosi a disposizione degli altri». Poi rammento don Gino Franchi che al Tirreno prova a spiegare con un “fotogramm” quello stile di carità controcorrente: una coppia che vede svoltare la vita semplicemente perché Olimpia trova fra gli amici un furgoncino con cui andare a fare lavoretti o il cenciaio, qualcosa al quale aggrapparsi per sbarcare il lunario. Quell’ “Ape” era un passo verso l’autonomia, e la dignità.

Tutto questo è stato possibile perché Olimpia era Olimpia, ma anche per via del vento di rinnovamento del Concilio Vaticano II che con monsignor Guano e poi con monsignor Ablondi ha soffiato su Livorno in quegli anni.

Anna Franchi, traduttrice, scrittrice, giornalista e critica d’arte: è nata a Livorno 158 anni fa

Anna Franchi, la battagliera paladina dei diritti delle donne

Al contrario di Olimpia, non posso dire di aver conosciuto Anna Franchi: noto però che nel periodo più recente fa capolino meno sporadicamente questa figura di donna livornese che ha vissuto una esistenza intensa a cavallo praticamente fra l’unificazione d’Italia e l’Italia repubblicana del dopoguerra: merito anche del Soroptimist che l’ha riproposta all’attenzione con una recente mostra (e un progetto denominato, appunto, “Rivalutiamo Anna Franchi”). Una stagione lunghissima, ma anche la grinta di una apripista: del resto, è o non è la prima donna che rompe il tabù del Famedio finora occupato solo da uomini illustri e manco una donna? E chi poteva farlo se non questa giornalista e scrittrice in prima fila nella lotta per l’emancipazione delle donne? Di più: non era forse la seconda donna, dopo Anna Kuliscioff, socialista come lei, a entrare nell’albo dei giornalisti lombardi che prima era off limits? E comunque, da cosa poteva partire questa lotta se non dalla cultura?

Era la persona giusta, anche se l’ha pagata cara sulla sua pelle: proviene da una famiglia benestante che promuove o comunque non ostacola il suo desiderio di studio e di conoscenza per far crescere una sensibilità che si declina anche nell’arte. Una cultura che diventa professione: è traduttrice, giornalista, scrittrice così come critica d’arte, e soprattutto una appassionata paladina dei diritti delle donne. I soprusi li aveva sperimentati lei stessa nel suo matrimonio tanto infelice quanto precoce. Si ritrova vessata due volte: come moglie, perché con pochissimi diritti rispetto a quanto doveva subire dal marito; come mamma, perché deve arrangiarsi a sbarcare il lunario quando il bilancio domestico va a rotoli e per il diritto di famiglia non può vendere i beni della sua famiglia d’origine senza che il marito la autorizzi.

Non c’è solo quello: le donne dovevano star fuori dagli studi superiori, non potevano firmare contratti e, se sposate, non potevano fare operazioni in banca o metter su ditta se non c’era il placet del marito. Il suo bestseller più noto riguarda la battaglia filo-divorzista ma è nel complesso quel che proprio non le va già è il ruolo della donna nella società. Anche perché se tutt’attorno ti volevano remissiva e docile, lei proprio non era di quella pasta: battagliera come socialista, battagliera come divorzista e “femminista” ante-litteram, battagliera perfino nella scelta di dedicarsi alla lotta anti-austriaca in termini patriottici. Insomma, non ci sono prove per sapere se nel ’17 Antonio Gramsci pensasse a Anna Franchi quando scriveva l’elogio del prendere posizione (“Odio gli indifferenti”): certo è che le battaglie di Franchi non erano rimaste a bagnomaria nei mugugni di provincia, ormai da tempo era trasferita a Milano e aveva già scritto i libri più famosi dedicati al divorzio visto come strumento per evitare quel che era capitato a lei.

 

Pubblicato il
4 Ottobre 2025
di GIULIANO DONATI

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