Livorno non è un paese per vecchi (ma nemmeno per bambini o per giovani)
Chi sta meglio sono i "boomer"?
LIVORNO. No, Livorno non è un paese per vecchi. Ma nemmeno per bambini e, men che mai, per giovani. Almeno a dar retta a una indagine che il quotidiano “Sole 24 Ore” ha presentato al festival dell’economia in agenda a Trento: l’ha condotta utilizzando non le impressioni dei diretti interessati bensì una griglia di parametri statistici calibrati di volta in volta sulle differenti categorie d’età. Per dirla meglio, il titolo del romanzo di Cormac McCarthy (e poi del film cult dei fratelli Coen) andrebbe un po’ risistemato: non d’un paese qui si tratta, l’indagine è fatta sulla base di statistiche provinciali, e dunque il guaio riguarda non solo il capoluogo ma un po’ l’intera striscia di territorio che dalla raffineria di Stagno arriva fino a Riotorto, isole comprese.
In cifre: sul fronte dei bambini la provincia di Livorno finisce al 70° posto, non più di 36 realtà territoriali del Bel Paese se la cavano peggio. E se limitiamo lo sguardo a nord di Roma, sono solo una decina i territori che per il pool di ricerca sono messi peggio di noi (Rovigo, Mantova, Lodi, La Spezia, Rimini, Pesaro Urbino, Viterbo, Pescara, Rieti e Terni).
Sul versante dei giovani, figuriamoci. Livorno non riesce a salire più in alto di una 94a posizione che vale una zona retrocessione: cioè solo una dozzina di province sono più in basso. E appena tre stanno a nord della Capitale (Prato, Massa Carrara e, nessuno l’avrebbe mai detto, Milano).
Quanto all’ultima categoria, quella degli anziani, le cose vanno in modo un po’ meno disastroso ma neanche poi tanto: 84° posto (su 107). Se, come al solito, guardiamo al Centro Nord, ecco che non più di sei sono le province che ottengono un “giudizio statistico” peggiore di quello livornese (Verbano Cusio Ossola, Imperia, Massa Carrara, Lucca, Terni e Teramo).
Al tirar delle somme, dunque, visto che nell’ultima indagine dello stesso team e dello stesso quotidiano confindustriale sulla qualità della vita in generale, per l’intera popolazione, la provincia di Livorno riesce strappare un 62° posto se ne potrebbe ricavare per differenza che Livorno non sarà un paese (o provincia) per bambini, giovani o anziani ma allora lo è per i “boomer”. Perlomeno, giova ripeterselo, a dar credito alle cifre degli indicatori statistici.
L’esatto opposto di quel che ci si sarebbe immaginati: non è l’economia il punto debole di un territorio che pure concentra in una striscia costiera di 1.200 chilometri quadrati due aree di crisi complessa, una potente deindustrializzazione che ha smantellato fabbriche tanto nel capoluogo che a Piombino e un record di cassa integrazione che ne fa uno degli otto territori dove più alto è il numero di ore autorizzate per ciascuna impresa nei primi nove mesi dello scorso anno (il doppio rispetto a Pisa o Lecce, il quadruplo di Catanzaro o Sondrio). E invece no: nell’identikit della qualità della vita a misura di età produttiva – i quaranta-cinquantenni, insomma – Livorno si arrangia a restare a galla a metà classifica: come un Como o una Udinese in serie A, ma comunque ben al riparo dal gorgo delle ultime posizioni.
Beninteso, a dire la verità il 50° posto Livorno se lo guadagna non tanto nella sotto-classifica degli affari bensì in quello della ricchezza e dei consumi: anche con un certo disallineamento rispetto agli indicatori della produzione di reddito, che semmai ci collocano laggiù in fondo come una provincia del Sud più in affanno. Fra gli indicatori: canone medio d’affitto, mesi di stipendio per comprare casa, disuguaglianza nel reddito netto, pensionati a basso reddito, retribuzione media annua dei lavoratori dipendenti, tendenza del Pil pro capite, pagamenti di fatture entro 30 giorni, valore aggiunto per abitante, depositi bancari di famiglie consumatrici, protesti pro capite, spesa familiare per acquisto di beni durevoli, inflazione, famiglie con Isee basso.
La variazione del Pil a testa e la spesa di ciascuna famiglia per comprare frigo, auto, lavatrice o mobili colloca Livorno nella metà di sinistra – in fondo alla metà di sinistra – della classifica, come direbbero i commentatori di pallone. Fra il 50° e il 51° posto: diciamo benino. A trainare verso l’alto le cifre della “ricchezza” sono la bassissima inflazione (e se ingurgitasse anche un po’ di spinte recessive?), il basso numero di famiglie con Isee al di sotto di quota 7mila, la buona disponibilità delle famiglie nello spendere per beni durevoli.
Non è l’economia il punto debole. Detta meglio: la produzione di ricchezza è parecchio zoppicante ma il consumo di reddito no. Quel che rischia di essere davvero in condizioni di fragilità strutturale è il capitale umano, la “materia prima” più “prima” di tutte le altre: è una delle “commodities” fino a un certo punto.
Come tutti i “termometri”, misura la “febbre” che vuol misurare: dunque, vade retro la tentazione di farne l’oracolo. Forse a Livorno si pensa di avere un problema con l’economia: ce n’è, ed è tangibile. Ma se fosse qualcosa di ben più profondo, di ben più lungo periodo? Se cioè avesse a che fare con lo stock di popolazione invece che con le contingenze della produzione e della produttività? Per dirne una: la “competenza numerica non adeguata” riguarda il 44,2% degli alunni livornesi di terza media, la “competenza alfabetica non adeguata” coinvolge il 41,8% di essi. Diciamo in modo meno ovattato: quasi la metà dei bambini di oggi non è adeguato né nei calcoli matematici né nell’espressione in lingua italiana.
Non mettiamoci qui a parlare di analfabetismo funzionale o di ritorno, certo è che Livorno rischia di avere una leva di ragazzini che fra un po’ di anni avranno una base di saperi appena minima per riuscire a comprendere come muoversi nel mondo che verrà. Davvero pensate che potranno svolgere compiti che non siano poco complessi e di bassa qualifica? A meno che non ci si immagini che il problema sia l’astrattezza del sapere scolastico e ci sia bisogno di mandare in soffitta il sogno di aver tutti liceali, magari per puntare di più sulla formazione post-diploma tipo Its per chi vuole un approccio più pratico-manuale.
Aspetto solo la bella professione di ottimismo sul know how extrascolastico di quelli che camperanno facendo l’influencer o il creator digitale: ognuno si contenta di quel che niente che vuole. Nel frattempo il report della Fondazione Migrantes – non un pericoloso circolo sovversivo ma un centro pastorale della conferenza dei vescovi – consente di accorgersi che tutto questo cianciare di migranti che ci vogliono colonizzare ci fa perdere di vista che siamo ancora un Paese dal quale si emigra. In questo momento, in una Toscana che conta 3,66 milioni di abitanti, quasi 2,2 milioni dei quali in età lavorativa, si contano 226.732 cittadini toscani (109mila donne e 117mila uomini) registrati nell’anagrafe degli italiani all’estero, cioè quelli che davvero hanno fatto la valigia per andarsene probabilmente per sempre. Chiunque di noi conosce giovani che, senza imbarcarsi in questa vicenda burocratica, hanno deciso di andarsene lontano per qualche periodo: arriveremmo a 250mila? Insomma, una città grande quanto tutta Livorno e tutta Pisa che se n’è andata oltre confine. E nell’ultimo anno questo flusso ultradecennale non si è affatto fermato: sempre il dossier di Migrantes dice che dalla Toscana sono andati a stabilirsi all’estero in 5.574 (2.584 donne e quasi 3mila uomini).
Torniamo a sfogliare il giornale di Confindustria per leggere l’allarme sugli ultimi dati Istat: in dieci anni se ne sono andati via dall’Italia 97mila laureati: e se all’inizio di questo periodo la quota di quelli con la laurea in tasca era attorno al 31%, da due anni supera la metà. Tradotto: lascia l’Italia chi ha una professionalità alta o altissima da spendere. Quanti dalla Toscana?
Non ho un dato puntuale ma, con una misurazione un po’ spannometrica, potremmo pensare attorno ai 6mila giovani toscani usciti con il “pezzo di carta” dall’università, magari con la lode e un sogno nel cassetto. In concreto: fossimo una squadra di calcio, avremmo un vivaio meglio della “cantera” del Barcellona dal quale tutti pescano gratis e i nostri ragazzi non vedono l’ora di andarsene. Può avere speranza un Paese così, una Toscana così, una Livorno così?
È qualcosa di più della sola attitudine del governo locale: finora il partito-babbo (e la corrispondente deresposabilizzazione del sistema dei corpi intermedi e dei singoli) ha fatto il “musino” ogni qual volta si rilevasse che il sistema-territorio è in affanno. Eppure in provincia di Livorno: la spesa sociale per famiglie è da zona Uefa (fra le prime 24 d’Italia) e quella per anziani idem (fra le prime 15); meglio ancora la percentuale di bambini che frequentano la scuola materna comunale (11° posto, ma le rette per la mensa sono fra le più care di tutto il Paese); altrettanto buono è il risultato per numero di edifici scolastici con la mensa (28°) o con la palestra (25°). Basta? No. E comunque: il problema è il risultato o potersene sciacquare le mani? In effetti, qualcosa non va: da Livorno a Piombino c’è un tal consumo di farmaci per la depressione da collocarci fra le 9 realtà di tutta Italia che ne fanno maggior uso.
Negli anni ’60 anche a Livorno dalle fabbriche e dalle officine è uscita una leva di imprenditori che non avevano fatto ingegneria ma semplicemente avevano nelle mani una straordinaria capacità artigiana: quanto è bastato loro per dar vita, facciamo qui solo due casi, ad esempio, la Carpensalda o le Officine San Marco. Potrebbe dirsi lo stesso con tutta la manualità relativa agli apparati motore o alla meccanica fine, invece avremo tonnellate di diplomati che saranno investiti in pieno dall’automazione delle mansioni d’ufficio forse ancor più degli operai. D’altronde, siamo o no fra le 22 province che meno hanno saputo approfittare dei fondi Pnrr per progetti relativi all’istruzione?
Mauro Zucchelli