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Chi lavora e chi meno nel porto

LIVORNO –  Nella provincia labronica lavorano in pochi: e parecchi di quei pochi lavorano anche male. Non lo diciamo noi, magari con un occhio prevenuto per quanto accade in porto (poi ne parliamo). Lo dice l’Irpet, cioè l’istituto di ricerche economiche che nei giorni scorsi ha presentato a Palazzo Granducale (sede della Provincia) un antipasto della conferenza economica programmata dal presidente Giorgio Kutufà per la prossima primavera.


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Sia detto senza alcuna ironia: se mettessimo insieme le conferenze economiche, gli studi sull’andamento del lavoro, i vari rapporti che da qualche tempo si sprecano tra Provincia, Camera di Commercio, Assindustria eccetera,  potremmo credere di avere un’analisi più che dettagliata, quasi micrometrica, di quello che succede nel mondo del lavoro locale, porto in specie. Invece l’impressione è che si tritino e ritritino i soliti vecchi temi (la grande industria internazionale che cerca di andarsene, i lavorori attivi che sono troppo pochi, il turismo che è una risorsa ma pur sempre terziario, il porto che potrebbe ma…) senza andare alla vera essenza delle cose: cioè, in stretta e brutale sintesi, che le “grandi potenzialità livornesi” (secondo Irpet) sono vanificate, ammesso che ci siano davvero, da alcuni tradizionali potentati fino ad oggi non scalfiti, e che a tutto pensano meno che a migliorare la qualità e specialmente la resa del lavoro, in particolare per quanto riguarda le banchine. Siamo stati tra i primi – ricordiamolo – a lodare l’iniziativa della Cilp per il “codice etico” per una serie di promesse sulle valutazioni “di merito”, iniziative che avrebbero dovuto ribaltare totalmente la storica definizione – vera o falsa che sia – del portuale come uno scanzafatiche. Però ad oggi i risultati sono stati assai modesti; e almeno a sentire gli operatori, si verificano episodi come quello di una nave che scarica auto bloccata con solo una cinquantina di vetture da “finire” perché è terminato il turno e i portuali non vogliono prolungarlo di quella manciata di minuti che avrebbe consentito alla nave di avvantaggiarsi di mezza giornata. Un caso isolato? Ci dicono che, sia pure in modi diversi, capita spesso: e non fa parlare molto bene di Livorno.

L’Istat punta, secondo il rapporto presentato nei giorni scorsi, a un rilancio di Livorno grazie specialmente alle grandi infrastrutture. Ma siamo alle solite: oltre ai tempi lunghi, necessari per queste realizzazioni, c’è il problema di chi paga. Lo Stato? Con questi lumi di luna, come si dice, meglio non farsi illusioni. I privati? Con le concessioni che per legge l’Italia non ammette a lunga scadenza (unico paese in Europa e forse nel mondo) chi è che investe milioni di euro per opere strutturali che non gli rimarranno nemmeno per una generazione? Nessuno ne ha parlato durante la relazione Istat in Provincia: ma la stessa vicenda del Terminal Darsena Toscana, con uno dei più grandi gruppi terminalisti europei che alla fine ha sbattuto la porta (o è stato costretto a sbatterla) non può essere letta soltanto come una mal condotta strategia per forzare la mano alla storica componente della Compagnia portuali.  Ci dev’essere stato davvero qualcosa che non funzionava, oltre alla (supposta) tracotanza dei dirigenti di Contship Italia: e forse questo qualcosa che non funzionava, o non funzionava al meglio, è il motivo per cui il subentro a Contship fianco a fianco della Cilp sia stato lungo, complicato, pieno di tatticismi e di ripensamenti nei complicati “patti parasociali” che comunque sono sempre difficili da gestire in una società tra due che hanno le stesse quote esatte.  Rendendo ragione al vecchio detto secondo cui una società è perfetta quando i soci sono in numero dispari, possibilmente al di sotto di tre.

Antonio Fulvi

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Pubblicato il
11 Settembre 2010
Ultima modifica
20 Settembre 2010 - ora: 08:05

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