Suez riparte (un po’): noi nel Mediterraneo respiriamo, ma…
Stop agli attacchi houthi: però ci vuole tempo. E sotto la brace resta acceso il fuoco
LIVORNO. L’attacco di Hamas che stermina più di mille ebrei che avevano la sola “colpa” di essere ebrei, la reazione del governo israeliano che massacra decine di migliaia di palestinesi che avevano la sola “colpa” di essere a Gaza. E poi: il Medio Oriente in fiamme con l’esplodere dello scontro fra Israele e Iran in via indiretta attraverso il Libano, magari la Siria, gli attacchi dei ribelli houthi alle navi occidentali sospettate di avere legami con Tel Aviv. In un 2024 che è stato un incubo è già un miracolo che, al tirar delle somme delle statistiche annuali, il flusso di navi nel Canale di Suez si sia solo dimezzato.
Ma questo non è solo un grosso problema per l’Egitto: lo è anche per noi italiani, visto che Suez è indispensabilissimo per qualunque rotta internazionale voglia dall’Oriente entrare nel Mediterraneo. D’altronde, secondo quanto riportato da “Shipping Italy”, la milizia yemenita filo-Iran in pochi mesi ha «messo a segno più di 100 attacchi alle navi che attraversano il Mar Rosso e hanno affondato due navi, ne hanno sequestrata un’altra e hanno ucciso almeno quattro marittimi».

Elaborazione sulla base di infografica di Assoporti-Srm
Il dossier di Assoporti-Srm mette in luce che per poco meno di tre navi su quattro è stato deciso di cambiare rotta e di puntare sulla circumnavigazione dell’Africa da parte degli armatori che hanno in mano le grandi rotte internazionali. Per i porti italiani è un incubo: lo sanno bene gli scali delle sponde adriatiche, che hanno vissuto un 2024 ben al di sotto delle aspettative, visto che Suez era in gravi difficoltà e il proprio referente principale, il mercato tedesco, zoppica ormai da tempo.
Al di là dei guai che ha in particolare la rotta adriatica, è chiaro che con Suez a mezzo servizio è tutto il Mediterraneo a soffrirne, inclusi ovviamente i porti dell’Arco Latino, quelli cioè lato mar Tirreno. Non solo italiani ma soprattutto italiani. Suez a mezzo servizio significa anche una batosta per gli introiti che il “pedaggio” del canale garantisce alle autorità egiziane.
Dev’essere per questo che, di fronte a bilanci drammatici sull’andamento dei transiti nel canale, i vertici della Suez Canal Authority hanno moltiplicato gli sforzi “diplomatici” per rassicurare gli operatori e placare le ansie di un mercato delle polizze impazzito. L’ammiraglio Ossama Rabiee, numero uno di questa istituzione egiziana, acchiappa ogni spunto possibile per accreditare come imminente, se non come cosa fatta, il ritorno alla normalità. Prima di tutto c’è il caso di Gaza: dire che si è arrivati a una pace solida e duratura probabilmente è un eccesso di ottimismo ma va nella direzione della narrazione che la nuova amministrazione americana di Donald Trump vuol dare. Forse in Cisgiordania non c’è esattamente un clima tranquillo ma a Tel Aviv devono aver capito l’antifona e a Teheran lo stesso. Risultato: l’ “incendio” geopolitico del Medio Oriente è stato (quasi) domato. Magari cercando di far passare come beghe locali quel che avviene in Cisgiordania o nella stessa Gaza, magari limitandosi ad incrociare le dita, magari solo fino alla prossima volta.
Fatto sta che l’Egitto ha, per mettere al sicuro i propri conti, fortissimamente bisogno che le navi tornino a passare da Suez. Ecco che una notiziola minore diventa un evento eccezionale: la nave porta-auto “Aicc Huanghu”, battente bandiera delle Isole Marshall ma appartenente a una compagnia di navigazione cinese, «transita per la prima volta nel Canale di Suez con 4.202 veicoli a bordo», era partita dalla Cina (Shanghai) e avrebbe dovuto raggiungere uno scalo turco (Dernice). Neanche un gigante, 199 metri e propulsione bifuel.
Il motivo di tutta ‘sta pompa magna per una singola nave nemmeno troppo da record? L’ammiraglio di Suez non ci gira intorno: «È un segnale positivo relativamente al desiderio di vari operatori di transitare attraverso il Canale di Suez per la sua rilevanza strategica nel commercio globale, visti i risparmi di tempo, costi e carburante che permette: questo ne fa la scelta ottimale per la sostenibilità delle catene di fornitura globali». In cifre: un risparmio del 45% dei costi e una riduzione di 18 giorni di navigazione (senza contare le emissioni), dato che se da Shanghai a Dernice c’è una distanza di 8.071 miglia nautiche passando da Suez, se ne hanno 14.600 se si passa dal Capo di Buona Speranza.
È ancora il grande capo di Suez ad annunciare felice a fine febbraio alla stampa internazionale che «47 navi sono state reindirizzate dalla rotta del Capo di Buona Speranza a quella di Suez dall’inizio di febbraio». Stiamo parlando dello 0,05% di quelle che sarebbero transitate nel Canale in un febbraio a pieno regime: ma già questo è stato preso come un segnale positivo. Il raffreddamento delle tensioni in Medio Oriente attenua la minaccia degli houthi e permette di tornare alle consuete rotte verso il Mediterraneo. Per ora: potrebbe permettere. Guai a dimenticare che, nella geopolitica della portualità, la rotta extramediterranea favorisce i già potentissimi scali del Northern Range (Rotterdam, Anversa, Amburgo e via dicendo) che da sempre determinano la strategia dell’Unione Europea sul fronte del porto.
Del resto, per il Canale di Suez gli ultimi tre mesi dello scorso anno – con 3.142 navi transitate – hanno fatto segnare di gran lunga il peggior dato degli ultimi 40 trimestri, cioè dell’ultimo decennio: eccetto che nel 2024, mai si era scesi sotto quota 4mila, neppure durante l’emergenza Covid. Anzi, dodici mesi prima si era contato il record sfiorando le settemila navi transitate (6.856 in primavera, 6.750 in autunno). Di più: guardando al tonnellaggio (che dal 2019 al 2023 aveva sempre superato il miliardo di tonnellate), emerge che dei 475 milioni di tonnellate transitati nel 2024 solo un quarto sono in arrivo dalla rotta indo-pacifica, dunque in entrata nel Mediterraneo.
Però, non tutto è risolto. Alcuni fra i principali armatori restano alla finestra in posizione di attesa: ad esempio, secondo quanto riportato da “Shipmag”, il presidente di Yang Ming, Tsai Feng-Ming, ha tenuto a precisare che il cessate il fuoco con l’intesa fra Israele e Hamas a metà gennaio non può esser visto come un colpo di bacchetta magica. Le compagnie di navigazione – questa la sua argomentazione – tengono gli occhi ben aperti per «vedere se reggerà». Comunque, sono necessari «almeno altri tre mesi» perché l’andamento di domanda e offerta torni a normalizzarsi. Analoga posizione di attesa era stata annunciata, subito dopo l’accordo su Gaza, da Maersk e Hapag-Lloyd, fra le più importanti flotte di trasporto container.
Non è finita qui. Di nuovo, il leader di Yang Ming richiama l’attenzione sul fatto che nel frattempo le catene di approvvigionamento sulle direttrici planetarie saranno ora sotto stress per due ragioni: da un lato, quali ripercussioni avranno i dazi annunciati della nuova amministrazione americana; dall’altra, cosa accadrà se con la soluzione della crisi di Suez si registrasse una offerta di navi che supera la domanda e, dunque, si innescassero fluttuazioni dei noli.
C’è un qualche buon margine per una soluzione positiva, ovviamente se il Medio Oriente non torna a incendiarsi (e gli houthi non riarmano i loro droni), ma alla conferenza alla Commodity Trading Week Asia di Singapore, a chi gli chiedeva una previsione sul ritorno alla normalità di Suez – lo riporta “Seatrade Maritime News”, informazione di settore, sponda britannica – uno degli amministratori di una flotta di petroliere ha risposto con una battuta: bella domanda, ma chi vuol fare la cavia? Come dire: molti aspettano che sia qualcun altro a fare la prima mossa. «Sulla questione del mar Rosso, saremo molto ma molto prudenti», dice il direttore di una compagnia asiatica.
Mauro Zucchelli
DALL’ARCHIVIO: la prima puntata dell’inchiesta della Gazzetta Marittima
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