Addio Francesco: cosa ha detto il papa nei viaggi in Toscana
Nel 2022 il "gran rifiuto" di partecipare al meeting di Firenze: le ragioni
LIVORNO. Papa Francesco ha segnato anche la Toscana: e oggi, nel giorno della sua morte, ne parliamo qui su un giornale economico perché in realtà il pontefice ha attraversato anche le storie e le esistenze di chi si è sempre sentito lontano dall’ombra del campanile, poco avvezzo all’odor di incenso delle sacrestie. Basti guardare alla processione via social di tante persone che non hanno smesso un minuto di dichiararsi agnostiche o atee eppure hanno confessato di voler dedicare affetto, amicizia e rispetto a quest’anziano che – anche nei giorni in cui ha dato così tanto “scandalo” mostrandosi, lui papa, nella fragilità della sedia a rotelle, con pantaloni scuri, poncho e cannule nasali del respiratore – non ha smesso di parlare di pace e disarmo. Perfino nell’ultimissimo appello, appena prima dell’ultimissimo giro in papa-mobile in piazza San Pietro 18 ore prima di esser dichiarato morto.
Del resto, il pontefice figlio di migranti piemontesi qualche legame con la Toscana l’aveva: l’ha detto al vescovo di Livorno, Simone Giusti: durante una visita “ad limina” il pontefice si mise a canticchiare una canzone sul porto di Livorno e disse a monsignor Giusti che di Livorno aveva sentito parlare dal padre, in Toscana avevano una parente (forse in provincia di Pistoia).
Quattordici anni fa, insieme a Ludovica Monarca, per l’editore Debatte ho scritto un libro (“Il nostro Wojtyla”) dedicato ai viaggi di Giovanni Paolo II in Toscana. Qui ho raccolto le parole di Francesco pronunciate durante i tre viaggi in Toscana: a Barbiana ero presente anch’io. Forse più ancora della riabilitazione di don Milani, a destare scalpore è stato un quarto viaggio che non c’è mai stato: quello del gran rifiuto di partecipare al meeting dei vescovi italiani annunciato a Firenze nel 2022 per parlare di Mediterraneo. Non solo non è andato, non solo non ha mandato né il suo braccio destro né un affettuoso saluto: si è schierato con le associazioni pacifiste che avevano contestato la presenza di un ex ministro (di centrosinistra) che ha legato il suo nome all’intesa con le autorità libiche per fermare le ondate di migranti. La Libia diventerà tristemente famosa per i lager dei tagliagole che commettono ogni genere di violenza su chi cerca di fuggire verso Lampedusa e dintorni.
L’ultima sottolineatura sembra una ripresa di quell’immagine di Amerigo Vespucci che parte dalla Darsena Vecchia accanto alla Fortezza Vecchia per una delle sue avventure da esploratore: ecco, Francesco a noi popolo di poeti, santi e soprattutto navigatori, nella visita del 2015 a Firenze dice chiaro e tondo: prendete esempio e non fatevi impaurire dalle onde, ci vuole il coraggio di andare in mare aperto per scoprire qualcosa.

Papa Bergoglio nel suo viaggio a Firenze nel 2015
PRATO: incontro con il mondo del lavoro nella piazza della Cattedrale (10 novembre 2015)
Papa Francesco coglie al volo la suggestione della “sacra cintola” di Maria, celebre reliquia di Prato, per sviluppare una riflessione che non puzza per niente di clericalismo o devozionalismo: al contrario, dice che “cingersi le vesti ai fianchi” «significa essere pronti, prepararsi a partire, a uscire per mettersi in cammino». Tradotto: Dio esorta a «non restare chiusi nell’indifferenza, ma ad aprirci». E poi: «Uscire, certo, vuol dire rischiare ma non c’è fede senza rischio. Una fede che pensa a sé stessa e sta chiusa in casa non è fedele all’invito del Signore […]: si preferisce allora il rifugio di qualche porto sicuro e si rinuncia a prendere il largo sulla parola di Gesù». Bisogna semmai percorrere «i sentieri accidentati di oggi, accompagnare chi ha smarrito la via, piantare tende di speranza dove accogliere chi è ferito e non attende più nulla dalla vita».
Per papa Bergoglio «non esistono lontani che siano troppo distanti, ma soltanto prossimi da raggiungere». Il pontefice parla della «sacralità di ogni essere umano: richiede per ognuno rispetto, accoglienza e un lavoro degno» (e a tal riguardo ricorda le sette persone di origini cinesi cinese morti due anni fa a causa di un incendio nella zona industriale di Prato).
FIRENZE: incontro con i rappresentanti del convegno nazionale della Chiesa Italiana nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore (10 novembre 2015)
Il papa guarda il “Giudizio universale” nella cupola della cattedrale di Firenze: il Cristo giudicato da Pilato si trasforma nel Cristo assiso sul trono del giudice, ma anziché pretendere di avere il, potere di essere arbitro, «solleva la mano destra mostrando i segni della passione». Il giudizio è contrassegnato dalla misericordia, secondo una delle indicazioni-chiave dell’intero pontificato: l’umanesimo rinascimentale invece che l’antitesi della fede riscopre «i tratti del volto autentico dell’uomo» dentro «la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto».
Cosa vediamo in quel volto? È «un Dio “svuotato”, […] ha assunto il volto simile a «quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati». L’architrave del nuovo umanesimo cristiano sta in tre sentimenti: 1) l’umiltà (altolà all’«ossessione di preservare la propria gloria»); 2) il disinteresse (bisogna «la felicità di chi ci sta accanto», si eviti di rinchiudersi «nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili»); 3) la beatitudine (è una gioia che sperimenta «chi conosce la ricchezza del condividere anche il poco che si possiede»). Questi tre elementi dicono che «non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa». Aggiungendo: «L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti».
Davanti ai problemi della Chiesa – afferma – è inutile «cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative». Anche perché Bergoglio invita a non vedere la dottrina cristiana come «un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare». Soprattutto la riforma della Chiesa poi «non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture: significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito».
C’è anche una seconda tentazione da sconfiggere: lo gnosticismo, dice Francesco: confida «nel ragionamento logico e chiaro, però perde la tenerezza della carne del fratello». E qui cita santi veri, come san Francesco d’Assisi, ma anche «personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone».
L’ultima sottolineatura è l’invito al dialogo sempre e comunque. Ma attenzione: dialogare non è «cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune, è cercare il bene comune per tutti». E se discutere insieme significa anche arrabbiarsi va bene: capita che «nel dialogo si dà il conflitto: non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo» e trasformarlo in «un anello di collegamento di un nuovo processo». Il motivo? «Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia».
Il miglior dialogo – ribadisce Bergoglio – non si fa a suon di chiacchiere ma costruendo insieme: «non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà» (e «senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo, altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze»). L’appello ai giovani è chiaro: «Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo». Del resto, è ben visibile la Chiesa che piace al pontefice: «Inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti».

Il papa scherza con un bambino durante il viaggio in Maremma
FIRENZE: messa nello stadio comunale (10 novembre 2015)
Il vangelo letto durante la liturgia indica due domanda di Gesù ai discepoli. Partiamo dalla prima: «La gente, chi dice che io sia?». Il papa spiega: Gesù Cristo non fa l’influencer a caccia di audience, è interessato a entrare in comunicazione con la gente, «le sue lacrime e le sue gioie». È la stessa domanda che deve farsi, senza autosufficienza, la Chiesa che, «come Gesù, vive in mezzo alla gente e per la gente».
Ecco che arriva la seconda domanda che Gesù pone ai discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?». Le parole di Simon Pietro («Tu per noi sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente») vanno controcorrente e superano l’opinione diffusa che non va oltre l’idea di un Gesù profeta o maestro: «la nostra gioia è riconoscere in lui la presenza di Dio». È una «verità che scandalizza»: chiede di credere in un «Gesù, che pur essendo Dio, si è svuotato, si è abbassato alla condizione di servo, fino alla morte di croce». All’umanità bisogna andare incontro «con lo spirito del buon samaritano: non per nulla l’umanesimo, di cui Firenze è stata testimone nei suoi momenti più creativi, ha avuto sempre il volto della carità».
BARBIANA (Firenze): giardino accanto alla chiesa di Sant’Andrea (20 giugno 2017)
Don Lorenzo Milani è ormai una figura di prima grandezza nella Chiesa ma in passato è stato profondamente osteggiato: ora è papa Bergoglio che va a “trovarlo” incontrando gli ex alunni del sacerdote fiorentino. «Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole»: così il pontefice. Francesco mette l’accento su un aspetto: «Di quella umanizzazione che rivendichiamo per ogni persona su questa terra, accanto al pane, alla casa, al lavoro, alla famiglia, fa parte anche il possesso della parola come strumento di libertà e di fraternità».
Non è una visita di rito, e lo si capisce quando papa Francesco prende di petto la questione. Don Milani aveva chiesto all’arcivescovo di Firenze di “riabilitarlo” dopo tanto esilio. Bergoglio ripete che gli arcivescovi lo hanno già fatto, ora «lo fa il vescovo di Roma», cioè il papa. Senza aver la pretesa di «cancellare le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani» perché «on si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco»: ma adesso è la Chiesa al suo vertice che riconosce in don Milani «un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa». Di più: fuori protocollo, dirà ì: «Pregate per me, perché prenda esempio da questo prete».
Al faccia a faccia sono presenti anche giovani che vivono in situazioni di marginalità, che però hanno «qualcuno che vi sta accanto per non lasciarvi soli e indicarvi una strada di possibile riscatto». Agli educatori va il “grazie” del papa: «Da insegnare ci sono tante cose, ma quella essenziale è la crescita di una coscienza libera, capace di confrontarsi con la realtà e di orientarsi in essa guidata dall’amore, dalla voglia di compromettersi con gli altri, di farsi carico delle loro fatiche e ferite, di rifuggire da ogni egoismo per servire il bene comune» (e a tal riguardo cita un passo da “Lettera a una professoressa”).
Di don Milani, Bergoglio dice che «tutto nasce dal suo essere prete ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede». Così totalizzante da diventare «un donarsi completamente al Signore». Ricorda l’identikit spirituale che di don Milani fece don Bensi: «Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno d’agosto fino all’autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire». Bergoglio ne indica la «sete di Assoluto»: senza di essa «si può essere dei buoni funzionari del sacro, ma non si può essere preti, preti veri».

L’incontro fra Fracesco e la comunità di Nomadelfia
NOMADELFIA (Grosseto): incontro con la comunità di don Zeno Saltini (10 maggio 2018)
Nomadelfia è una «realtà profetica che si propone di realizzare una nuova civiltà, attuando il Vangelo come forma di vita buona e bella». Parte da qui il pontefice per incontrare la comunità creata dall’«ardore apostolico» di don Zeno Saltini sotto il segno della “legge della fraternità”, che prende ispirazione dalle prie comunità cristiane («avevano un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune»).
Il papa esorta la comunità a «continuare questo stile di vita, confidando nella forza del Vangelo e dello Spirito Santo, mediante la vostra limpida testimonianza cristiana». La comunità – viene sottolineato – «non lascia spazio per l’isolamento o la solitudine, vige il principio della collaborazione tra diverse famiglie». Con uno stile di vita che prevede anche un mutamento dei rapporti personali («tutti si chiamano per nome, mai con il cognome, e si usa il confidenziale “tu”»).
Anche gli anziani – dice papa Francesco – sono al centro di una «attenzione amorevole»: anche quando non godono di buona salute, «restano in famiglia e sono sostenuti dai fratelli e dalle sorelle di tutta la comunità». Tutto questo viene fatto «sempre conservando lo spirito di Don Zeno che voleva una Nomadelfia “leggera” ed essenziale nelle sue strutture».
LOPPIANO (Firenze): incontro con la comunità dei focolari nel santuario Maria Theotokos (10 maggio 2018)
A papa Francesco la comunità focolarina di Loppiano, una “cittadella del Vangelo” in cui si firma un patto di impegno («vivere l’amore scambievole») rivolge un tris di domande. A cominciare da un aspetto: a distanza di anni dalla fondazione e passato il tempo degli entusiasmi iniziali, come vivere questo momento di passaggio? Stiamo parlando dei “pionieri” di questa esperienza, gente che «più di 50 anni fa» si è lanciata in questa avventura, «lasciando le vostre terre, le vostre case e i vostri posti di lavoro per venire qui a spendere la vita e realizzare questo sogno».
Bergoglio risponde prima di tutto di coltivare la memoria: «Quando, non dico un cristiano ma un uomo o una donna, chiude la chiave della memoria, incomincia a morire» perché chi è senza radici «non può portare frutto». Poi l’accento viene messo su due parole difficili: l’una è “parresia” e l’altra “hypomoné”. La prima è il coraggio di dire le cose in faccia: «Anche in faccia a Dio», afferma il pontefice ricordando un passo in cui Abramo contratta lungamente con Dio per salvare eventuali “giusti” a Sodoma. «E anche nelle relazioni dentro la comunità – aggiuge – occorre essere sempre sinceri, aperti, franchi, non paurosi né pigri né ipocriti».
E l’altra parola? “Hypomoné” significa sopportare. Meglio: imparare ad “abitare” le situazioni impegnative che la vita ci presenta. Bergoglio cita san Paolo che usa questo termine per esprimere «la costanza e la fermezza nel portare avanti la scelta di Dio». Costanza, fermezza e pazienza «producono la speranza», e la speranza «non delude». E se saltasse fuori la tentazione di rinchiudersi al riparo del proprio guscio comunitario, ecco che Bergoglio indica che si vive la comunità «non per starsene tranquilli fuori dal mondo, ma per uscire, per incontrare, per prendersi cura, per gettare a piene mani il lievito del Vangelo nella pasta della società, soprattutto là dove ce n’è più bisogno».
La seconda domanda riguarda la possibilità di creare coscienze che improntino un diverso stile di leadership che riesca ad aprire nuove strade. È possibile? A Loppiano c’è un unico Maestro (Cristo) e «la dinamica è quella dell’ascolto reciproco e dello scambio dei doni fra tutti». Soprattutto Loppiano, la “città” costituita dalla comunità focolarina, è una «città aperta» dove «non ci sono periferie».
La terza domanda è relativa alla presenza di migranti dentro la comunità di Loppiano. Al papa viene chiesto di indicare la “missione” che la “città” dei focolari dovrebbe darsi. «Questa non è un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento di epoca e occorre impegnarsi non solo per l’incontro tra le persone, le culture e i popoli e per un’alleanza tra le civiltà, ma per vincere tutti insieme la sfida epocale di costruire una cultura condivisa dell’incontro e una civiltà globale dell’alleanza», risponde il pontefice. Francesco invita alla «fedeltà creativa»: fedeli all’ispirazione originaria e insieme aperti al soffio dello Spirito Santo che porta su vie nuove. Come si fa a riconoscere lo Spirito Santo? «Con il discernimento comunitario», replica il papa.
Mauro Zucchelli