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Ma Nogarin attacca a Bruxelles

Filippo Nogarin

Il dibattito sui rapporti – spesso conflittuali – tra Autorità di sistema portuale e città è stato al centro di un workshop in commissione UE a Bruxelles, nel corso del quale il sindaco di Livorno Filippo Nogarin, presidente dell’associazione delle città portuali, ha svolto un polemico e articolato intervento. Ne riportiamo una sintesi.

BRUXELLES – Buongiorno a tutti, è un privilegio per me poter intervenire in un contesto di così alto livello e affrontare insieme a voi il delicato tema dello sviluppo sinergico tra i porti e le città che li ospitano.

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Tutto questo per un motivo molto semplice: manca la volontà politica di legare i destini dei porti a quelli delle città. Recentemente il governo italiano ha riformato la legge 84/94, ridefinendo il sistema di governance delle Autorità portuali e creando una gestione associata tra porti vicini. Ma lo ha fatto complicando enormemente la rappresentanza degli enti locali nei Comitati di gestione delle stesse Autorità portuali.

Questa riforma aveva due obiettivi, quello di limitare la frammentazione, combattendo i campanilismi che in Italia sono ancora ben radicati, e quello di sottrarre la gestione dei porti alla politica in favore della tecnica.

Obiettivi in linea di principio condivisibili, ma il percorso scelto per raggiungerli rischia di ottenere l’effetto opposto.

Per scoraggiare l’ingerenza politica sui processi di sviluppo dell’economie portuali, si è infatti deciso di separare in maniera definitiva il destino del porto da quello delle città.

Dopo anni di tentativi, spesso fallimentari, di sviluppare una politica federalista, attraverso la distribuzione di competenze e responsabilità agli enti locali periferici, ora il governo ha quindi deciso di tornare indietro e di riprendersi il controllo, in questo caso dei porti.

Una sciagura e lo dico senza mezzi termini. Perché se c’è una cosa che ho imparato lavorando per anni come libero professionista per aziende che si occupano di logistica e trasporti in porto, è che questo è un mondo estremamente chiuso, impermeabile, che si lascia indirizzare e condizionare solo da istituzioni e autorità che sente essere molto vicine.

Non capire questo significa non voler davvero favorire lo sviluppo dei porti italiani.

Il modello che ho in mente io, ma che più in generale abbiamo in mente noi sindaci delle città portuali è quello delle grandi municipalità europee, da Barcellona ad Amburgo a Rotterdam.

Perché, diciamoci le cose come stanno, i porti hanno un impatto devastante sulle città che li ospitano, in particolare dal punto di vista ambientale.

Vi racconto un episodio che ritengo essere esemplificativo.

Ogni anno a Livorno entrano in porto circa 500 navi da crociera che scaricano quasi un milione di turisti in città. Queste navi che rimangono diversi giorni ferme in banchina con il motore acceso, dal punto di vista delle emissioni sono l’equivalente di 14mila automobili.

Per provare a ridurne l’impatto ambientale sui quartieri limitrofi, il 12 novembre del 2015 abbiamo inaugurato il primo sistema di cold ironing allestito in un porto italiano.

Una banchina elettrificata che garantisce il corretto funzionamento degli impianti a bordo delle navi in sosta, anche con il motore spento.

Un’infrastruttura innovativa e strategica, che avrebbe potuto diventare uno dei fiori all’occhiello dell’offerta che il porto di Livorno avrebbe potuto garantire agli operatori crocieristici.

Bene, in quasi due anni, la banchina elettrica non è stata praticamente mai utilizzata.

Credo che questo episodio spieghi meglio di ogni altro quali sono i rischi di un mancato dialogo tra porto e città, ma anche quali siano le opportunità che si potrebbero aprire se si seguisse una linea d’azione comune.

C’è però un altro grande tema che non può essere sottovalutato: l’impatto di un porto sulla città va ben oltre l’aspetto ambientale.

Se Livorno oggi è quello che è, lo deve in particolare al modello di sviluppo che è stato adottato in porto: la stragrande maggioranza delle trasformazioni urbanistiche e viabilistiche sono state fatte proprio per assecondare le scelte prese all’interno del mondo portuale.

Come doveva cambiare la città lo si è deciso più frequentemente in porto, piuttosto che in Comune e questo ha provocato non pochi problemi.

Ma ciò che è più grave è che, in questa situazione, il Comune, ovvero il sindaco, la persona eletta da migliaia di cittadini per amministrare Livorno, non ha mai avuto voce in capitolo e non ha mai potuto indirizzare alcuna scelta di quelle fatte all’interno del porto.

In attesa di poter fare un’analisi più compiuta del nuovo modello di governance, mi limito a sottolineare che, mentre nel passato l’attività portuale era fonte di arricchimento per la città, con i lavoratori che facevano a gara tra loro per presentarsi sotto le navi per scaricarle dalle merci, oggi invece ha l’effetto di bruciare il territorio circostante.

Il valore aggiunto non è più nella merce che viene trasportata ma nella rapidità con cui viene spostata. Alle comunità locali si chiede solo ed esclusivamente di mettere in piedi un sistema infrastrutturale che sia in grado di garantire questa velocità di spostamento delle merci in transito.

Esigenza legittima, ma che non può diventare l’unica bussola per l’azione amministrativa di un porto.

Il discorso vale, come è ovvio, anche per la crocieristica, con i turisti caricati come pacchi in fondo alla scaletta e trasportati in mezza Italia da operatori che non hanno alcun interesse a promuovere la città che ospita il porto.

Attorno ai porti italiani, insomma, si è creato un intreccio di lobby e corporazioni che ha come obiettivo quello di fare affari nel totale disinteresse per il territorio circostante.

Con la revisione della normativa nazionale, il governo italiano aveva la possibilità di porre un freno a questo problema ma non lo ha fatto. E le conseguenze di questa scelta, presa come detto in nome di una presunta infallibilità della tecnica rispetto alla politica, le vedremo solo in un prossimo, immediato futuro.

Quello che per il momento è certo è che la riforma del sistema portuale iniziata nel 1994 e improntata a una progressiva liberalizzazione delle attività a livello di banchina, è fallita.

Le Autorità portuali, da garanti della concorrenza, si sono trasformate a loro volta in comitati di affari, pronti a tutelare gli interessi particolari dei singoli armatori o operatori storici e a salvaguardare le proprie rendite di posizione.

Le politiche protezionistiche sono rimaste predominanti in questo settore come in molti altri e, anche in questo senso, a farne le spese sono le comunità locali.

Ecco dunque il senso più profondo del mio intervento: se l’Italia vuole davvero diventare competitiva a con i suoi porti a livello europeo, non può limitarsi a un lavoro pur essenziale sulle infrastrutture.

C’è bisogno di una governance misto tecnico politica che possa indirizzare le scelte strategiche da qui agli anni a venire in direzione di uno sviluppo sinergico tra porto e territorio circostante.

Altrimenti il rischio è di creare delle cattedrali nel deserto.

Un rischio che si accentua se si pensa ai progetti di ampliamento che stanno per partire in alcuni porti italiani, primo tra tutti proprio quello di Livorno.

La Darsena Europa è un’infrastruttura faraonica studiata senza pensare alle ricadute sul territorio circostante. Un’opera sui cui la stessa Corte dei Conti dell’Unione Europea ha sollevato più di un dubbio circa la sua sostenibilità economico finanziaria.

Noi, nonostante fossimo contrari a questo tipo di progetto i cui frutti, se ci saranno, verranno raccolti tra oltre 30 anni, come Comune abbiamo approvato tutti i passaggi necessari a far partire i lavori e soprattutto a raccogliere i finanziamenti.

Ciò nonostante è tutto ancora bloccato e l’impressione è che, se anche si dovesse partire, nessuna ricaduta positiva arriverà su Livorno, che dovrà invece fare i conti con un traffico maggiore, navi di dimensioni più grandi e con un’infrastruttura fortemente impattante anche dal punto di vista ambientale.

Noi non ci siamo opposti alla Darsena Europa, in nome di una strategia di sviluppo comune.

Ma perché questo sviluppo sia realmente comune, è necessario che si cominci a pensare in termini di compensazioni per il territorio cittadino e di strategiche sinergie per l’attrazione di nuove imprese in città. Imprese che puntino sulla blue e sulla green economy e che si possano fare forza dei laboratori all’avanguardia che abbiamo deciso di allestire a ridosso del porto, nel polo tecnologico che verrà inaugurato a breve.

Questo sarebbe un vero cambiamento. Altrimenti saremmo davanti alla conferma della teoria espressa da un noto autore italiano, Tommasi di Lampedusa, ne il Gattopardo.

“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, tutto deve cambiare”.

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Pubblicato il
20 Maggio 2017

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