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Chi ha paura della paura

LIVORNO – Mettiamola così, se vi pare: di questi tempi, la cosa principale di cui dobbiamo aver paura è la paura, dunque non è tempo di paura ma di scelte coraggiose.
[hidepost]Bello, eh? Molti di voi sanno bene che non sono parole mie ma di un certo Franklin Delano Roosevelt nel 1932, nel suo celebre discorso a chiusura della grande depressione iniziata nel ’29. Però mi sembrano parole adeguate sia alla situazione nazionale italiana, sia alla ristretta realtà dei nostri porti, sia infine – perdonatemi se uso grandi parole di un grande uomo per una realtà minore – alla ristrettissima vicenda del porto labronico.

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Cominciamo da quest’ultimo: De minimis curat praetor, avrebbero detto i latini. A Livorno abbiamo assistito nei giorni scorsi a una specie di battibecco di cortile tra esponenti della vita portuale sul tema di chi deve rendere conto a chi del lavoro, della produttività e anche – a quel che si è capito – delle prebende di chi lavora nella Port Authority. Illustre (si fa per dire, nella realtà locale) l’accusatore, illustre (idem) il difensore, peraltro supportato da un inusuale comunicato ufficiale dell’Authority. Francamente, avrei lasciato il battibecco al modesto livello delle tante analisi, critiche e non, che da sempre ronzano intorno all’Autorità portuale: analisi e critiche con qualche sospetto d’invidia per retribuzioni non certo da fame e per impegni di lavoro non sempre da miniera. Mi chiedo piuttosto se non sia davvero arrivato il momento di piazzare un paio di cazzotti sulla scrivania da parte di Gallanti & C. perché tutti – dentro e fuori palazzo Rosciano – si diano una mossa. Sono mesi che ronziamo intorno al piano regolatore del porto che deve partire, che sta partendo, che è pronto alla partenza, ma siamo al coro dell’Aida: “Partiam, partiamo”, e tutti sono piantati sul palco che non si muovono per tutto un atto. Lo so, lo sappiamo: l’intreccio di competenze tra istituzioni, la maledizione di una burocrazia che divora se stessa, gli “atti dovuti” che qualche volta giustificano le responsabilità rifiutate, le approvazioni di consigli elettivi che devono fare il loro iter, sono la democrazia ma anche – nelle sue degenerazioni – uno dei cancri di questo povero paese. Ma possiamo sperare che alla fine arrivino i cazzotti e si passi alle cose serie, ai fatti concreti, alle scelte non solo annunciate ma sancite?

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Poi c’è la vicenda della riforma della riforma, ovvero della legge 84/94: legge esattamente di vent’anni fa, nata male già allora per la moltiplicazione delle Autorità portuali, e maturata peggio per l’intrusione della politica nelle nomine dei vertici. Oggi si discute da una parte di una “riformina” alla quale credono forse solo i pochi che ci stanno lavorando (i senatori Grillo, Filippi etc), dall’altra della “riformona” ventilata dal ministro Lupi, sulla quale però poco si sa oltre gli annunci, e poco si capisce sulla condivisione o meno del Lupi-pensiero da parte del governo. Della serie: di che stiamo parlando? Assoporti in merito tace, malgrado i solleciti: e il suo presidente Pasqualino Monti sta affrontando – a quanto ci dicono – le fatiche di Sisifo per mettere insieme un coacervo di posizioni l’un contro l’altre armate. Che ce la faccia tutti lo sperano: ma quanto possa valere un compromesso del “sindacato” dei porti è tutto da capire. Del resto anche un osservatore attento come il presidente di Confetra Nereo Marcucci nei giorni scorsi in una sua riflessione confinata in un colonnino di cronaca seminascosto nel quotidiano livornese il Tirreno, ironizzando sulla riforma (e sulle più importanti aspettative di bicameralismo perfetto) aveva ricordato che “quando il riformatore coincide con il riformando, non si ha alcuna riforma” (ovvero, citando questa volta Berlusconi: “Non si può chiedere al cappone di anticipare il Natale”). Dunque: sbagliato aver paura della paura, d’accordo. Ma in quanto ad altre paure, non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Antonio Fulvi

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Pubblicato il
11 Gennaio 2014

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