Confetra: il porto di Trieste non è mai stato in vendita
TRIESTE – “Nelle ultime settimane – scrive in una lunga nota il presidente di Confetra Friuli-Venezia Giulia Stefano Visintin – si è fatto un gran parlare di Trieste e del suo Porto su giornali e tv. Noi imprenditori dello scalo giuliano e del sistema logistico regionale, abbiamo seguito con particolare interesse i vari contributi. Nessuno, però, si è scomodato per chiedere quali fossero la posizione o le proposte degli imprenditori che, quotidianamente, lavorano e danno lavoro nell’ambito del sistema portuale di Trieste, oggi uno dei porti più importanti d’Italia per tonnellaggio ed il primo per traffico ferroviario, soprattutto internazionale”.[hidepost]
Nella sua nota, Visintin ricorda che il porto di Trieste, come tutti gli altri scali italiani, non è in vendita perché ciò è materialmente e giuridicamente impossibile. Il demanio marittimo non è in vendita. È corretto, invece, parlare di concessioni in base alla legge 84/94, che prevede regole, diritti e doveri. Se le condizioni stabilite all’atto della firma della concessione non vengono rispettate, al concessionario si può revocare la concessione.
In secondo luogo, è utile ricordare come a Trieste – senza clamori mediatici – l’Autorità portuale abbia ottemperato a quanto richiesto dalle leggi riguardo l’ambito portuale, sia in materia di lavoro portuale (Piano dell’organico) che di Piano regolatore portuale (approvato). A ciò si aggiunga che si tratta dell’unico Porto franco internazionale in Europa, la cui disciplina codificata è di diritto pubblico internazionale. Confidiamo che chi governa il Paese sia consapevole di quale strumento di politica internazionale e commerciale dispone e quali ne siano (nel dettaglio) le regole.
Sul tema del pericolo, per l’industria nazionale, di investimenti esteri nel Porto franco di Trieste, sarebbe utile capire in base a quali dati concreti esso trovi fondamento, a differenza di quanto accaduto altrove in Europa. Forse sfugge che il porto di Trieste serve per l’85% il centro ed est Europa (via ferrovia), mentre il mercato italiano pesa per il 15% circa. Pertinenti sembrano invece le considerazioni sul fatto che l’arrivo di investitori esteri non sarà la panacea per i porti italiani: lo condividiamo, in primo luogo perché se il nostro porto già cresce a doppia cifra, questo è dovuto principalmente al duro lavoro delle aziende private – spedizionieri, terminalisti portuali e retro portuali, agenti marittimi ed operatori in genere – che promuovono lo scalo giuliano a livello internazionale, lavoro agevolato dalle scelte operate dall’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico orientale.
Una politica concreta per mantenere il controllo della catena logistica non prevede di “chiudersi a riccio” bensì, ad esempio, la promozione di una crescita della cultura industriale nel campo delle condizioni di vendita internazionale dei propri prodotti. I termini di resa Incoterms® 2010 andrebbero approfonditi e, per creare valore aggiunto, si suggerisce di accantonare la pervicacia degli imprenditori nostrani nel vendere franco fabbrica. La convinzione di liberarsi di ogni problema una volta che i prodotti sono usciti dal cancello del proprio stabilimento, regala ad altri attori (del trasporto e industriali) fino al 30% del valore commerciale dei beni e la perdita del controllo sulle vie che tali prodotti percorrono per raggiungere il luogo di destino.
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