Logistica? In Italia tra gli ultimi

Da Vladimiro Mannocci, direttore nazionale ANCIP, riceviamo:ROMA – Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur: mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata. In questo caso Sagunto è il sistema portuale italiano che è assediato da una crisi profonda. Ma da Roma, il Governo Berlusconi sembra non rendersi conto di quanto sta accadendo in questo settore fondamentale per lo sviluppo economico italiano. La crisi sta cambiando in profondità anche gli assetti e le dinamiche dello shipping e della portualità mondiale. In poco più di un anno si sono dissolte tutte le certezze che avevano caratterizzato il trentennio che abbiamo alle spalle, durante il quale i traffici erano costantemente cresciuti. In questi anni, nell’illusione che la competitività passasse attraverso aperture a forme più sfrenate di concorrenza interna, si è pensato più a comprimere la sfera del lavoro che non a rafforzare la rete infrastrutturale del Paese. Con quello che si spenderà per il ponte sullo Stretto di Messina potrebbero essere fatte opere per riorganizzare gran parte del sistema dei trasporti. I porti italiani da anni non hanno potuto utilizzare parte delle risorse che producono, come invece accade in Europa e nel resto del mondo civilizzato. Anche per questo motivo in questi anni si è allargata la forbice fra il sistema portuale italiano e quello nordeuropeo in particolare. Il rapporto della Banca Mondiale “Connecting to compete 2010: trade logistics in the global economy” ha stilato una classifica del livello delle attività logistiche di 155 nazioni. Il sistema logistico tedesco risulta essere il migliore al mondo mentre l’Italia è solo alla ventiduesima posizione della graduatoria dietro a quasi tutti i paesi europei di prima fascia, avanti solo a Spagna e Portogallo. Il Governatore di Bankitalia Mario Draghi ha evidenziato in questi giorni come l’Italia sia fra gli ultimi paesi in fatto di crescita nel quadro dell’Unione Europea.
L’iter avviato in Parlamento per modificare la Legge n. 84 del 1994 é naufragato perché nonostante le promesse fatte in questi mesi di attuare l’autonomia finanziaria nei porti, questa non si è realizzata. Il ministro dell’Economia Tremonti ha di fatto messo il veto. Anzi, in questi mesi si sono bloccati tutti i finanziamenti che sarebbero dovuti servire a rilanciare la portualità italiana e nella legge finanziaria approvata a dicembre scorso non c’è niente di rilevante per questo settore. Un simile atteggiamento non ha riscontro in nessuna realtà europea dove, anche a fronte delle difficoltà date dalla crisi, i governi stanno intervenendo per rafforzare il sistema dei trasporti, per dare alle Autorità Portuali maggiori strumenti ed ulteriori risorse per rendere più efficienti i porti. Purtroppo negli scali italiani si stanno consumando crisi che vedono, nel migliore dei casi, l’utilizzo di ammortizzatori sociali (cigo, cigs, “deroga”, CdS) per migliaia di lavoratori. La discussione che si è aperta fra i presidenti delle Autorità Portuali dei porti di “transhipment” e quelli dei porti “gateway” è un po’ come vedere i “polli di Renzo”di manzoniana memoria che “s’ingegnavano a beccarsi l’uno con l’altro, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.” Anche al fondo di questa vicenda emerge l’incapacità di questo Governo, di analisi sulla crisi e di azione e della sua incapacità di dare soluzioni ai problemi aperti, né in termini di emergenza né in termini di prospettiva. Ne è un esempio l’emendamento proposto dal Governo al “decreto milleproroghe” per poter abbattere le tasse di ancoraggio ai terminalisti, dovendo però far compensare alle Autorità Portuali le minori entrate con riduzioni di spesa. Questo sarebbe un pericoloso palliativo, in quanto scaricherebbe su questi Enti e conseguentemente sui porti, minori entrate per 220 milioni di euro. Un detto livornese recita: “agli zoppi pedate negli stinchi”. Eppure erano state indicate altre strade che avrebbero prodotto benefici per gli operatori portuali, senza rischio di collassare un sistema già precario. Un esempio: attraverso il taglio delle accise sul carburante dei mezzi usati in porto e con la defiscalizzazione degli oneri sociali a carico delle aziende portuali, queste ultime si sarebbero dovute impegnare a non attuare lincenziamenti. I 45 milioni di euro di risparmi prodotti per le imprese sarebbero stati compensati per lo Stato con minori spese per la Cassa Integrazione Straordinaria che in questo caso non sarebbe stata attivata. Questo governo non ha mosso un dito nemmeno rispetto alle richieste fatte circa un anno fa dalle associazioni che compongono il cluster marittimo e portuale. Allora il governo si ostinava a dire che la crisi non esisteva.
In questi giorni, con il patrocinio del ministero degli Esteri e del ministero dei Trasporti e sponsorizzato da Unicredit, si è svolto a Trieste un convegno internazionale dove si è parlato di costruire una “piastra logisica” per i porti di Trieste e Monfalcone prevedendo investimenti privati. Fin qui niente di strano dato che gli investimenti privati nei porti italiani non sono una novità. L’anomalia sta nel fatto che questi investimenti verrebbero fatti non rispettando le procedure della legge 84/’94 e tutto passerebbe sopra la testa dell’Autorità Portuale e dei suoi indirizzi di programmazione concordati con gli Enti locali. E’ forte il sospetto che si voglia fare entrare “dalla finestra” la proposta di costituire dei “supercommissari” per i porti di Genova e di Trieste, cosi come era stato proposto dal ministro Matteoli con un emendamento al decreto “anticrisi” del luglio scorso. Ingredienti per grandi torte da spartire con i “soliti ignoti” della finanza che ora hanno messo gli occhi sui porti e sulle opere da realizzare. Su questi temi il Governo sembra prediligere il far diventare “emergenze” le questioni ordinarie, sulla falsariga di quanto é avvenuto per le competenze della Protezione Civile.
Niente di buono dunque sotto il sole.
Vladimiro Mannocci

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