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Ma se i fanghi ritornassero in mare?

LIVORNO – Visto dalla periferia, cioè dal porto che più di quasi tutti gli altri ha dovuto subire la sciagurata istituzione dei SIN, il convegno sui dragaggi, di cui parliamo qui a fianco, appare come una bella esercitazione letteraria: o se preferite, una passerella di personaggi importanti e influenti, ma con obiettivi ahimè non inchiodati a un crono-programma rigoroso.

[hidepost]E’ una critica al convegno? Tutt’altro: anzi molti aspetti tecnico-giuridici sono stati messi a fuoco e lo stesso ministero dell’Ambiente s’è preso le sue (passate) responsabilità per una legislazione che in nome di un eccesso di garantismo ecologico ha fatto danni economici enormi.
Però ci aspettiamo che adesso dalle parole si passi ai fatti concreti. Che tengano di conto non solo i mille vincoli di leggi eccessive ed obsolete, ma anche e specialmente dei fatti.
E di fatti, proprio dalla nostra periferia, vogliamo citarne uno che ci sembra significativo. Prima che l’Italia si “incartasse” con leggi drastiche e autopunitive che hanno vietato di ributtare in mare i fanghi di dragaggio anche “puliti”, il porto di Livorno venne dragato a fondo per realizzare la Darsena Toscana: e oltre 2 milioni di metri cubi di materiale furono scaricati in mare, a circa 14 miglia dalla costa su un fondale di circa 100 metri, pressoché dove attualmente è ancorata in modo permanente la piattaforma di rigassificazione della OLT Toscana Offshore. Alla luce delle normative attuali fu un crimine, anche se allora era perfettamente legale. E per dieci anni, dal 2005, il sito dove furono scaricati i fanghi è stato attentamente monitorato dall’Ispra, con prelievi ciclici di campioni del fondo, di pesci e di vita bentonica.
I risultati di questi dieci anni di controlli sono stati resi noti proprio da poco. E sapete quali sono? Secondo l’Ispra – che è un istituto che opera per conto del ministero dell’Ambiente – la vita sul fondale dove sono stati scaricati i dragaggi del porto sarebbe perfettamente uguale a quella dei fondali cosiddetti “incontaminati”. Insomma, per quanto tra i fanghi ci fossero anche tutti gli elementi inquinanti che l’attività di un porto storicamente produce, il mare s’è ripulito tutto.
Che cosa se ne può dedurre, se quanto riportato è la verità? La più ovvia delle considerazioni è che la soluzione più semplice e anche più logica ai mille problemi legati ai dragaggi portuali sarebbe quella di consentire di nuovo lo scarico in mare dei fanghi. Nessuno strilli al sacrilegio, per favore: è ovvio che oggi ci sono sistemi di controllo degli stati di inquinamento assai più perfezionati che nel passato, quindi nessuno chiede di buttare in mare tout court tutto. Però una volta controllata la “pulizia” dei fanghi di dragaggio, la parte di essi che risultasse non inquinata dovrebbe essere scaricata in mare con costi enormemente ridotti per la collettività, e guadagnandoci anche nei tempi, sia tecnici che burocratici. Ci si potrebbe quindi dedicare al deposito e allo smaltimento in terra solo delle parti inquinate, che rappresentano – sempre secondo gli studi più seri – una percentuale ridottissima dei volumi da dragare.
Nel convegno di mercoledì scorso questa tesi è stata appena sfiorata dagli interventi ufficiali: ma circolava senza remore tra gli esperti della platea. Solo che nessuno ha avuto il coraggio di sposarla dal palco. Perché è una bestialità o perché, alla fine, Quieta non movere e sulla trafila ci guadagnano in tanti?
Antonio Fulvi

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Pubblicato il
21 Febbraio 2015

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