Referendum: il voto è mobile (e il non-voto lo è ancora di più)
Occhio agli astenionisti: se rientrasseero in gioco sui diritti sociali...
LIVORNO. Il referendum è sempre uno strumento difficile da maneggiare. Anche per chi lo propone: tranne quelli per le modifiche costituzionali, può essere solo abrogativo di norme esistenti per cui il quesito è uno zigzag di parole da cancellare per provare a disegnare una idea alternativa, ma con molta difficoltà. Ma è difficile da maneggiare soprattutto per chi è nel Palazzo del Potere: è qualcosa che esce dagli schemi di schieramento, va fuori dalle logiche del Palazzo e si mette nelle mani di milioni e milioni di elettori dai quali, ormai, non sai più cosa aspettarti (anche se i pronostici e i sondaggi vaticinano una bassa affluenza).
L’ha imparato Matteo Renzi sulla propria pelle con il referendum costituzionale del dicembre 2016, lo trasformò in un tentativo di plebiscito su sé stesso e gli elettori gli dettero una sberla via scheda (poi lui se ne infischiò della promessa di chiudere con la politica in caso di sconfitta, ma questo è un altro discorso). Lo impararono la Democrazia Cristiana (e la Chiesa cattolica) nell’era dei referendum che spaccavano il Paese su grandi questioni morali (divorzio e aborto). Lo imparò Bettino Craxi, che pensò di cavarsela invitando gli elettori a farsi una bella giornata di mare anziché perdere tempo con le urne: è il giugno ’91, il patto con Andreotti e Forlani sembra ancora inossidabile e invece di lì a poco la slavina referendaria – insieme all’inchiesta di Mani Pulite, il patatrac della crisi economica che costringe a una misura di guerra come il prelievo forzoso dai conti correnti, l’assassino di Falcone e Borsellino – dice che non solo il suo tempo ma quello della Prima Repubblica è scaduto.
Bisogna prenderla alla lontana: ma è questo lo scenario che ronza nella testa di chi è al Potere. Come disinnescare una potenziale bomba? In realtà, non dovrebbero esserci troppi problemi. L’istituto del referendum ha già abbastanza guai di per sé: tolto il caso del 2011, è necessario tornare indietro di trent’anni per trovare un referendum che abbia raggiunto il quorum (perché il referendum sia valido bisogna che i votanti superino il 50% dell’elettorato).
La soluzione per il governo di centrodestra è proprio lì: il Palazzo usa la disaffezione che il “teatrino” della politica ha generato per cavalcare l’astensionismo e rendere inoffensiva una potenziale minaccia. Tradotto: chi è responsabile (non solo la destra) della inadeguatezza della politica usa proprio il danno che ha creato (la disaffezione) per disinnescare questo qualcosa che, dal di fuori delle dinamiche conosciute, minaccia gli equilibri esistenti nel “teatrino”. Beninteso, non è che con il centrosinistra al governo le cose fossero molto differenti: neutralizzare anticipatamente qualsiasi sussulto, questo è il mantra.
D’altronde, nelle ultime elezioni l’astensionismo è già sostanzialmente maggioritario. Si pensi al fatto che alle regionali dell’Emilia Romagna i votanti sono arrivati a malapena al 46,4% e in Liguria neanche lì. Neppure alle europee del giugno dello scorso anno i votanti ce l’hanno fatta a raggiungere il 50%, idem alle regionali della Basilicata. Figurarsi poi che nel febbraio di due anni fa alle regionali nel Lazio è andato alle urne meno del 38% e in Lombardia quasi il 42%.
Nel verdetto referendario il non-voto equivale a una bocciatura preliminare, non c’è neanche da vedere se sono più i sì o i no. E partendo da un astensionismo così alto il gioco è facile: forse non c’è neanche da convincere la metà della metà del proprio elettorato. La soluzione è già lì: l’astensione è di per sé un fenomeno maggioritario o quasi.
Stavolta però non è detto che il gioco sia quello di sempre. È differente la tipologia di referendum: stavolta non è un pacchetto di referendum che ha a che fare con una scelta morale (divorzio, aborto, fecondazione assistita) o con una ristrutturazione di norme di settore (si pensi all’infinito numero di quesiti sui giudici che si sono succeduti negli anni) o a approcci di tipo politico-filosofico (vedi i vari quesiti di marca ambientalista). Ha a che fare con i diritti sociali: potrebbe essere uno scossone anche alla sinistra, che la rappresentanza sociale se l’è dimenticata da decenni.
Nella storia degli oltre settanta quesiti referendari sono pochissimissimi quelli che riguardano i diritti dei lavoratori: il referendum sulla scala mobile, quello sull’articolo 18 e non molto altro. Anche i quesiti sulla rappresentanza o sulle trattenute sindacali riguardavano più le tecniche dell’organizzazione del consenso sindacale che non la materialità dei rapporti di lavoro. Dipende dunque:
- se i lavoratori ritengono di difendere i propri diritti tramite l’abolizione di una serie di norme che, dando mano praticamente libera alle imprese oppure se, al contrario, temono che, inceppando la loro libertà di manovra, gli imprenditori si impauriscano e si mettano sulla difensiva rinunciando a assunzioni e crescita
- se i cittadini che hanno un lavoro si sentano coinvolti in quanto lavoratori in rapporto con una impresa oppure se, al contrario, non si sentono definiti dal proprio ruolo di lavoratore perché la loro persona si esprime semmai altrove e il lavoro è principalmente un luogo dove si ha lo stipendio per vivere e stop
- se i fattori ideologici di riferimento, per quanto indeboliti, abbiano marcato una appartenenza per cui chi magari si sente di centrodestra in nome della lotta anti-immigrati segue il proprio schieramento anche là dove di fatto i suoi difendono gli interessi delle imprese più che i suoi
- se, soprattutto, tutto quel che puzza anche solo di lontano di politica è roba che riguarda altri e a poco vale che gli si ricordi: se tu non ti interessi di politica, sono comunque i politici a interessarsi di te ea decidere al posto tuo.
Insomma, al di là delle ricette e delle (deboli) appartenenze politiche, in questa tornata di referendum sul lavoro si va a incidere sui diritti sociali: quelli di chi lavora. Bisogna vedere se scatterà l’identificazione in milioni di lavoratori “poveri” con buste paga sotto i mille euro al mese o in nero o con zero diritti: bisogna vedere se riconosceranno che è di loro che si parla. Nessuno più bada ai blocchi sociali di riferimento, alla rappresentanza di istanze che siano mobilitazione sociale prima che audience. L’ennesimo flop referendario equivarrebbe a dire che forse anche queste pieghe della società sono diventate minoritarie.
Alla prova dei fatti, non sarebbe questa la realtà reale: ciascuno pensi a quale occupazione, quale busta paga e quali contenuti di mestiere hanno i trentenni che conosce. Un nuovo proletariato esiste ma forse è il lavoro saltuario come “rider” o cameriere a definirne l’identità di persona: è un arcipelago segmentatissimo per tipologia, reddito reale, paracadute familiare e aspirazioni. E, manco a dirlo, non sta più in un liuogo fisico identificabile facilmente: la Fabbrica. E nemmeno si riconosce nelle logiche di fabbrica. Non se ne sente identificato e plasmato: il suo “sé” sta altrove. Ma altrove dove?
Non è qui il caso di mettersi a infilare tutto questo astensionismo “spintaneo” dentro il disegno di rimodellazione degli equilibri istituzionali che si verticalizzano sempre di più: un/una premier più forte che si sbarazza di quel po’ di contrappeso che ha il presidente della Repubblica (così ben interpretato da Mattarella), detta legge con i ministri e praticamente, a suon di decreti legge senza nessuna urgenza, inghiotte il potere legislativo del Parlamento. Pensate a quale deserto di corpi intermedi c’è fra il singolo e il Capo, che si tratti del sindaco o del premier.
Adesso il governo vuole solo una cosa: mettersi alle spalle il referendum. Non dipende dal colore politico: l’hanno fatto in passato anche altri di ispirazione opposta. Per questo premier e ministri dribblano ogni contrapposizione per evitare che il fronte del sì aggreghi energie attorno alla “costruzione del nemico”: una mobilitazione “contro”. La risposta della premier Giorgia Meloni («vado al seggio ma non ritiro le schede») ha dato la stura a una infinità di meme: “vado al cinema ma non vedo il film”, “vado allo stadio ma resto nel bagno senza guardare la partita”, “vado sotto l’ombrellone ma mi metto il cappotto” e via scherzando. In realtà, una logica c’è: appunto, volare bassi e far finta di niente. Non fare muro ma parlar d’altro. Il governo si è schierato ma senza gridarlo troppo. Vuole evitare l’effetto “referendum anti-Renzi” stavolta contro Meloni.
Del resto, l’opposizione è nelle condizioni in cui è eppure riesce a mettere a segno un colpo come quello di Genova, dove a distanza di poche settimane lo stesso centrodestra che aveva vinto alle regionali con Bucci è andato ko contro Salis. Travasi di voti? Le indagini dell’istituto Cattaneo sui flussi elettorali dicono di no: al 94-95% chi ha votato un certo schieramento l’ha rifatto. E allora perché si è ribaltato l’esito? Perché i due fronti erano a un niente di distanza: il centrodestra di Bucci alle regionali aveva vinto sulla piazza di Genova per meno di un punto e mezzo. Tutto sta in cosa fa chi si era messo alla finestra: il “partito del non voto”.
È bastato che l’astensione pesasse un po’ più di qua e un po’ meno di là, ed ecco il risultato di Genova. Da tener presente che ormai, quando parliamo di astensione, facciamo riferimento al primo “partito”, che di solito vale il doppio del partito più votato. E su un referendum relativo ai diritti sociali si potrebbe mobilitare qualche pezzo di società che manco abbiamo presente. Oppure no. Lo vedremo prima ancora che gli scatoloni si aprano: il voto vero stavolta è andare a votare, perciò l’attenzione zero che accompagna sempre le statistiche sull’affluenza, lunedì pomeriggio valgono come lo spoglio vero.
Mauro Zucchelli