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Maneschi: l’Italia incurabile

In un’economia mondiale capitalista, il nostro paese è incatenato a regole del peggior socialismo – Costi e confronti con i concorrenti

Pierluigi Maneschi

TRIESTE – E’ tornato da poco dall’ormai consueto tour nel Far East, ma probabilmente si fermerà poco in Italia. Perché dal punto di vista imprenditoriale giudica il nostro paese come ormai superato. Peggio: destinato a un inarrestabile declino. E ormai Pierluigi Maneschi, massimo esponente italiano di Evergreen e titolare di un impero della logistica che si articola tra Livorno, Genova, Trieste, Koper, Taranto e anche la Cina (per non citare che alcune locations) lo ripete come un Mantra ad ogni occasione.
Maneschi, perché considera la situazione Italia disperata?
“Perché questo paese crede di poter competere in un’economia mondiale capitalista senza rispettarne le regole. Anzi, andando al contrario di queste regole. E facendo così fa fuggire imprenditori e investitori di capitale”.
[hidepost]Ma di recente anche l’Unione Europea ha avuto parole di lode per l’azione del governo nel recupero di credibilità internazionale.
“Non prendiamoci in giro. La politica, tutta la politica, non ha rispettato né rispetta l’assioma fondamentale per la crescita economica di un paese: far si che gli imprenditori guadagnino del proprio lavoro. Quando invece accade, come in Italia, che le imprese devono sostenere una lotta impari con la burocrazia, con le leggi, con i sindacati e con tutte le infinite strutture pubbliche create per controlli quasi sempre inutili, le imprese se ne vanno. Con la conseguenza che anche lo stato sociale va a rotoli: le imprese che chiudono significano posti di lavoro perduti, cassa integrazione e costi collegati enormi per la comunità, introiti fiscali che calano. Una spirale drammatica, per contrastare la quale però nessuno fa davvero qualcosa oltre le chiacchiere in campagna elettorale”.
Lei parla da imprenditore globalizzato: eppure si è sforzato di portare stabilmente in Italia uno dei colossi armatoriali del Far East, l’Evergreen: e ancor oggi quasi tutte le sue imprese hanno bandiera italiana…
“E’ vero ma a questo punto mi pento. Perché per quanti sforzi io faccia, non vedo soluzioni alla crisi italiana. Anzi, devo dire che sono contento che mio figlio Antonio lavori ormai stabilmente in Cina, dove le regole del gioco finiscono per essere più corrette che da noi. Un solo esempio, per far capire con quali problemi dobbiamo confrontarci: nel porto di Trieste un operaio costa mediamente oltre 40 mila euro l’anno, mentre poche decine di chilometri più in là, nel porto di Koper, il costo è vicino alla metà: e le strutture sono moderne, la burocrazia molto ridotta, chi investe è facilitato e lo Stato non si sogna di considerarlo un sospetto, bensì una risorsa. Il risultato? In cinque anni Koper ha scavalcato tutti i porti dell’Adriatico nel movimento dei contenitori e marcia con incrementi impressionanti”.
Scusi la domanda, Maneschi: ma allora perché lei sta a Trieste e non a Koper con le sue imprese?
“A domanda sincera, risposta sincera: io lavoro sempre di più anche a Koper”.
Adesso siamo in campagna elettorale. Non possiamo sperare di migliorare le cose?
“Mi dica quale attenzione ha sentito, da parte dei partiti politici, ai problemi di cui abbiamo parlato: logistica, portualità, intermodalità, meno oneri alle imprese…e potrei continuare. Ripeto: siamo in un’economia capitalista accettata persino dalla Cina, ma non possiamo chiedere agli imprenditori di questo paese di operare in un’economia che ha preso il peggio di quelle socialiste. Dove esistono quasi trenta porti che pretendono tutti di avere progetti faraonici a spese dello Stato. Dove gli interporti che funzionano sono meno di mezza dozzina ma ce ne sono altri venti che costano alle finanze pubbliche e basta. Dove … ma è inutile continuare”.
Antonio Fulvi

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Pubblicato il
23 Gennaio 2013

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