“O Liburnia!” di Mario Vierucci
LIVORNO – Devo confessare, per onestà intellettuale, che parecchi libri di autori contemporanei mi annoiano. E che se finisco per leggerli davvero è per dovere di cronista, oltre che per cortesia (ho scribacchiato libri anch’io e conosco la frustrazione di chi dubita di non essere letto).
Devo quindi confessare, non senza sorpresa, che questo agile libretto con quattro racconti mi è subito garbato; e vi ho colto non solo una notevole piacevolezza di scrittura ma anche un tocco raffinato di riverente ironia verso la città, verso la sua storia, verso la sua gente e i suoi miti. Sublimi nella loro ambientazione per esempio (terza parte della storia del console Wìlly, il primo racconto) i versi dello stornello boccaccesco tanto noto alle vecchie generazioni:
Nel porto di Livorno,
non c’è più pesci
che m’importa bimba
se mi lasci…
(e Vierucci lascia in sospeso il resto della strofa, che per doveroso rispetto storico mi sento invece di completare)
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… t’ho rotto il gingillino
indove pisci …
Tra citazioni delle più note “locations” livornesi, e voluti anacronismi divertenti (il bar Civili per i ponce del 1921) i racconti di Mario Vierucci si snodano godibilissimi anche per chi di Livorno conosce solo i luoghi comuni. E nella leggerezza sottolineata delle trame, saetteano improvvisi brandelli di approfondite meditazioni (“lo sforzo temerario per sfuggire alla schiavitù degli amori formali”) che bilanciano divertenti invenzioni come il richiamo di Dio Onnipotente al povero console perché si liberi da quella beghina della moglie.
Vierucci, in conclusione, ha scritto un bel libro e quattro bei racconti, con ritmi completamente diversi l’uno all’altro e in un caso (l’imperatrice Carlotta e il castello triestino di Miramare) poeticamente tragico. Un consiglio da vecchio cinico ma ancora capace di distinguere il bello scrivere: da leggere.
A.F.
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