L’organizzazione del lavoro sui porti

Nella foto: Nereo Marcucci
LIVORNO – A fine agosto, in una delle tante occasioni di dibattito politico che accompagnano l’ormai eterna campagna elettorale in vista delle elezioni europee (festa livornese dell’Unità) l’ex presidente dell’AdSP del Tirreno Nord, poi presidente nazionale di Confetra, oggi presidente della componente portuale in Confindustria Toscana con altri incarichi nel Gruppo Neri, ha svolto un interessante intervento sui temi dello shipping di oggi e domani.
Significativo nell’occasione anche l’intervento di Pasquale Legora De Feo – ad di Conateco Napoli (Aponte) e presidente di Fise Uniport (l’Associazione che raggruppa tutti i terminal merci e passeggeri di Aponte) il cui incipit è stato “per molteplici ragioni i traffici non sono destinati ad aumentare”….non tanto perché confermano la mia analisi (magra soddisfazione) ma perché giustificano la discussione sul futuro del lavoro (che ovviamente non può seguire le montagne russe dell’andamento dei traffici).
Ecco l’abstract dell’intervento di Nereo Marcucci.
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Una considerazione generale: Non credo anch’io che l’offerta di occasioni di lavoro nei porti e più in generale nella logistica sia destinato a crescere.
Attività portuali e logistica sono segmenti di un’economia derivata dalle produzioni e dal loro interscambio, che potrebbero soffrire per circostanze che non possiamo sottovalutare: dalla storica assenza di una politica industriale e logistica nazionale (perfino il citatissimo reshoring non è sorretto da iniziative politiche idonee) all’impatto sulle produzioni industriali tradizionali ed innovative dell’IRA (inflation reduction act) del presidente Biden che favorisce in modo discriminatorio, come ha sottolineato poco fa in un lucidissimo intervento Marcegaglia, le produzioni con il 50% di made in USA, all’accelerazione della pur necessaria transizione ambientale nell’automotive che si vuole a senso unico nonostante rappresenti il 50% dei traffici mondiali secondo una ricerca – purtroppo datata – dell’Università di Brescia, alle politiche delle shipping lines, tornate di nuovo al blank sailing, e comprensibilmente a modulare le loro attività sulla domanda che sconta per famiglie ed imprese gli effetti dell’inflazione e del costo del danaro.
Anche per queste brevissime e non esaustive ragioni Confindustria richiede interventi europei e nazionali anticiclici e continua sostenere con le Istituzioni locali il rilancio di manifattura e logistica.
Il sistema portuale non si schioda dalle 500 mio tonn/ che ogni anno dal 2010 al 2022 sono state movimentate nei porti nazionali.
Ancora una volta si ritiene che si possano aumentare i traffici (e l’occupazione) intervenendo con alcune riforme a proposito delle quali un attento osservatore ha scritto “che non si può certo dire che oggi il governo italiano non abbia idee per la riforma della portualità, semmai ne ha troppe. Sfortunatamente però avere troppe idee, in contraddizione tra loro, è come avere nessuna idea realistica e concreta.” L’auspicio è quindi che si faccia chiarezza.
Torno al tema della giornata: l’organizzazione del lavoro nei porti.
Sarebbe necessario troppo tempo per affrontare il tema cruciale sul futuro quantitativo e qualitativo dell’offerta di lavoro portuale conseguente ai cambiamenti, per quanto graduali, dovuti all’introduzione di automazioni e digitalizzazione in un contesto caratterizzato dalle integrazioni orizzontali e verticali delle attività da parte delle SSLL.
Sull’argomento avverto la necessità di una valutazione laica del rapporto tra innovazione nella supply chain e sostenibilità sociale per le comunità locali per arrivare – se ve ne fossero le condizioni – a generalizzare le riflessioni portate poco fa dai D’Agostino, Cascetta, Russo per creare lavoro nuovo e buono considerando il porto non solo il luogo dei traffici.
Sull’organizzazione del lavoro nei porti – nell’ambito della annunciata riforma – chiederei l’applicazione della VIR (DPCM 169/2017) cioè l’analisi e la Verifica dell’Impatto della Regolamentazione sulle novità introdotte sul tema dell’“autoproduzione” e su quelle introdotte con il Decreto legislativo 169 che ha normato il Piano Organico del Porto.
Per quel che vale la mia valutazione è che l’impianto che regolamenta l’o.d.l. imperniato su tre componenti corrisponda alle necessità delle imprese e sia garanzia, salvo eccezioni, di lavoro buono.
Ritengo invece che, anche a prescindere da una più compiuta riforma e quindi con interventi normativi ad hoc, siano da integrare gli strumenti a disposizione delle AdSP a valle delle analisi del Piano Organico del Porto funzionali al ricambio generazionale nei porti ponendo due questioni principali.
1) Se sia sufficiente l’attuale dotazione di strumenti normativi/economici perché l’Autorità possa significativamente intervenire quando certifica, sulla base di evidenze condivise dalle associazioni di rappresentanza delle Imprese e dei Lavoratori, che un certo numero di lavoratori degli Artt. 16 e 17 – proprio a causa del lavoro svolto – risultano parzialmente o totalmente inidonei alla mansione e quali strumenti può utilizzare per aiutare il ricambio generazionale senza danni economici per quei lavoratori che, vicini alla pensione, siano volontariamente disponibili ad anticiparla?
Migliorando la loro condizione di vita e probabilmente anche produttività e sicurezza del lavoro.
2) Quali strumenti – rispettosi del diritto costituzionale delle Aziende a definire la propria organizzazione – ha l’Autorità quando per servire vettori di sempre maggiori dimensioni e minor numero di toccate? È necessaria una quantità di forza lavoro che rende “labile” la distinzione cristallizzata tra appalto di servizi art 16 e affitto di manodopera art.17?
Ritengo infine che si debba integrare l’attuale normativa in modo da aiutare il ricambio generazionale al quale accennavo al punto 1 aiutando anche il superamento graduale della distonia indicata al punto 2 suscettibile, per varie ragioni, di creare difficoltà economiche insuperabili a quelle imprese, ai loro lavoratori e quindi al sistema portuale.
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