GENOVA – È probabile che pochi si ricordino una tipologia di nave, (quella della foto, qui a fianco) che negli anni settanta – mi pare – fece una breve apparizione su tutti i mari, compreso il Mediterraneo, per il trasporto dei contenitori. Si chiamavano navi LASH (light abroad ship), furono appannaggio in particolare dell’allora potente American Export Lines, e cantarono poco più di una sola stagione.
Non richiamo alla memoria, solo come storico, questa soluzione sperimentale, che si dimostrò presto troppo complessa e che fallì nel presupposto di velocizzare le operazioni d’imbarco e sbarco nei porti. Le LASH avevano a bordo chiatte autopropulse sulle quali erano imbarcati, a coppie o qualche volta anche a gruppi più numerosi, i container: il presupposto era che la nave non entrasse mai in porto ma si fermasse in rada solo in tempo per scaricare in mare le chiatte con il loro carico, che dirigevano autonomamente in porto, sbarcavano i TEU ed eventualmente ne caricavano altri che avrebbero aspettato il prossimo passaggio della LASH per essere recuperate a bordo. Tempi, costo delle operazioni e problemi di banchina o di fondali non avrebbero più condizionato le operazioni.
Fu un’utopia. Ma che conferma ancora una volta come la fantasia e le tecnologie corrono ben avanti alle realtà.
Per leggere l'articolo effettua il Login o procedi alla Register gratuita.