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UNIVERSITÀ: RICERCA

Alzheimer, migliaia di malati in ogni città ma sembrano “invisibili”

Coordinato dalla Scuola Sant'Anna un promettente studio per capire i sintomi precoci

PISA. Quando è che vuoti di memoria, amnesie temporanee, dimenticare nomi, luoghi o appuntamenti sono un trascurabile episodio senza importanza e quando invece sono la spia che qualcosa nel cervello non funziona più e magari sta arrivando l’Alzheimer? È un interrogativo che pesa più di un macigno: anche perché è la malattia in sé che è destinata a sconvolgere l’esistenza tanto del malato come del suoi familiari, e a fronte dell’invecchiamento progressivo della popolazione sta diventando l’incubo per milioni di persone alle soglie della vecchiaia.

Ma è un interrogativo anche il numero dei malati: non crediate sia esclusivamente una curiosità statistica, è un problema sociale sommerso che resta spesso all’interno delle mura domestiche a gravare sulle famiglie. Ricordo ancora quando ho ascoltato Fiorella Cateni, tanti anni nel volontariato, da ultimo sul fronte dell’associazione dei malati di Alzheimer, indicare numeri choc: «A livello nazionale – sottolinea – si contano 1,4 milioni di persone colpite da forme di demenza senile, fra loro sono oltre 600mila quelli con Alzheimer. In Toscana si stima siano 8mila i malati di Alzheimer di cui 20mila a Firenze e 7mila a Pistoia. A Livorno? Si presume circa 5mila, ma è una valutazione per la quale bisogna essere prudenti».

Niente meglio di questi numeri spiega la dimensione del problema di cui stiamo parlando. Adesso uno studio coordinato dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, in tandem con l’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi e l’Università di Firenze, ha allo studio «lo sviluppo di un nuovo metodo che, grazie alla combinazione di modelli matematici ed elettroencefalogramma, potrebbe aiutare a riconoscere sempre più precocemente i sintomi dell’Alzheimer». Questo – si afferma – «aprendo la strada a nuove tecniche diagnostiche che, con le necessarie verifiche, in futuro potranno supportare i medici nella pratica clinica». Lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Alzheimer’s Research & Therapy”, come viene segnalato dal quartier generale dell’istituzione universitaria d’eccellenza.

È da rimarcare anche il fatto che l’autore principale della scoperta di questa novità è uno studente del corso PhD in Biorobotica della Scuola Sant’Anna: si chiama Lorenzo Gaetano Amato. «Abbiamo utilizzato un modello matematico che descrive il cambiamento dell’attività del cervello al progredire dell’Alzheimer per investigare i segnali che annunciano l’inizio della malattia. Il passo successivo – mette in evidenza il giovane studioso  – è stato quello di analizzare l’attività cerebrale di oltre cento anziani con lievi problemi di memoria tramite una semplice registrazione dell’elettroencefalogramma. Combinando queste analisi, per ognuno di loro è stata sviluppata una versione personalizzata del modello del cervello che ci ha consentito di capire quali di loro fossero a rischio di sviluppare l’Alzheimer».

Fiorella Cateni, a destra, qui con il consigliere regionale Francesco Gazzetti

Alberto Mazzoni, professore associato di bioingegneria presso l’Istituto di biorobotica della Scuola Sant’Anna, nella veste di coordinatore dello studio, tiene a mettere in rilievo che «non solo saremo in grado in grado di fornire una previsione sempre più affidabile del rischio di sviluppare l’Alzheimer in presone che non hanno ancora evidenti sintomi clinici, ma – avverte – siamo riusciti a farlo con un metodo completamente nuovo, potenzialmente molto più semplice da utilizzare per ospedali e pazienti rispetto ai metodi attualmente in uso».

Dal Sant’Anna lo ricordano senza giri di parole: la malattia di Alzheimer rappresenta «una delle principali sfide della medicina moderna, con un impatto crescente su pazienti, famiglie e sistemi sanitari». L’orientamento della ricerca degli ultimi anni è stato man mano indirizzato alle fasi preliminari della malattia: «a quel periodo cioè – si sottolinea – che precede la comparsa dei sintomi conclamati di demenza.

Identificare l’Alzheimer quando i segni clinici sono ancora lievi, ma sono già presenti alterazioni biologiche, è oggi considerato fondamentale, è il concetto-chiave espresso da Valentina Bessi, responsabile del Centro per i disturbi cognitivi e le demenze presso l’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi di Firenze (e professoressa associata di neurologia presso l’Università di Firenze). «La diagnosi precoce sta aprendo nuove possibilità di intervento, – afferma – consentendo l’accesso a trattamenti innovativi che potrebbero rallentare la progressione della malattia e migliorare la qualità della vita». Quanto alla tecnologia di cui qui si parla, la prof. Bessi dice che «è promettente e può essere un ulteriore strumento per aiutare nella diagnosi il medico, conoscitore della complessità fisica, psichica e sociale del paziente».

L’obiettivo di questa ricerca, durata oltre quattro anni, è quello di fornire una prognosi riguardo al possibile emergere di demenza di Alzheimer in persone che non hanno ancora sintomi così gravi da essere a livello clinico: intercettare la malattia prima che si veda, insomma. Finora l’unico modo per capire se eventuali vuoti di memoria siano i primi segnali dell’Alzheimer è ricorrere a esami complessi come la “Pet” cerebrale o l’esame del liquido cerebro-spinale.

La sede della Scuola Sant’Anna di Pisa in una veduta dall’alto

Nello studio della Scuola Sant’Anna con l’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi e l’Università di Firenze sono stati analizzati i dati di 124 persone, di cui 86 con lievi disturbi cognitivi solo soggettivi. Questa nuova metolodogia di approccio – viene evidenziato – ha consentito di predire nell’88% dei casi l’esito dell’esame del liquido cerebro-spinale basandosi solo sull’elettroencefalogramma. Inoltre, dalla sede santannina confermano che «siamo stati in grado di predire 7/7 conversioni ad un declino cognitivo obiettivabile». Sono per primi gli autori della ricerca a gettare acqua sul fuoco: «Naturalmente si tratta di numeri non molto grandi e soprattutto di un tempo di osservazione relativamente limitato per fenomeni che richiedono anni a svilupparsi, quindi sarà necessario ampliare i dati a disposizione e continuare a seguire i pazienti nei prossimi anni».

«Questa combinazione di metodi di simulazione del cervello avanzati combinati con un semplice elettroencefalogramma – conclude il prof. Mazzoni – funziona meglio dei metodi usati finora: per ora questo è stato uno studio tutto italiano ma stiamo lavorando a una validazione più ampia che comprenda anche collaborazioni con centri europei».

Pubblicato il
15 Giugno 2025
di BOB CREMONESI

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