A due passi dal mar Rosso sta nascendo un nuovo oceano
Tranquilli, i tempi sono geologici: ci vorranno milioni di anni

Il gruppo di ricerca dell’università di Pisa con Carolina Pagli (prima a sinistra) e Gianmaria Tortelli (terzo da sinistra)
PISA. Non bastavano i guai nel passaggio del Canale di Suez o gli attacchi delle milizie houthi nel mar Rosso, la geologia apre un nuovo fronte inevitabilmente incandescente per un angolo di mappamondo in cui le tensioni geopolitiche sono già caldissime. Stiamo parlando della regione dell’Afar, in Africa, nel nordest dell’Etiopia: qui tre grandi placche tettoniche si stanno separando e, in prospettiva geologica, nascerà un nuovo oceano.
Non è una novità: gli studiosi conoscono questa sorta di assottigliamento della crosta terrestre nel sottosuolo di questa regione: tale da essersi dimezzata come spessore e da portare ad un abbassamento della superficie fino a farlo sprofondare al di sotto del livello del mare: a livello divulgativo ne ha parlato Eitan Haddok su “Le scienze” già quasi una ventina di anni fa, c’è la prospettiva che il mix di questi fenimeni geologici di lunghissimissimo periodo porti a trasformare in un nuovo oceano questa zona.
Se la questione torna sotto i riflettori è per via di un’accoppiata di ricerche, in entrambi i casi con l’università di Pisa nel team degli studiosi: è l’ateneo pisano a segnalare che «due ricerche appena pubblicate su riviste del gruppo “Nature” riscrivono sotto una nuova luce questo fenomeno». In che senso? Secondo gli studi «la risalita di magma dal profondo, dal mantello, è modificata dall’allontanamento delle placche nella parte più superficiale, diversamente da quanto sinora ipotizzato».
Gli studiosi dell’università toscana hanno avuto «un ruolo chiave» in ambedue le indagini scientifiche grazie al lavoro dei ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra che si sono occupati «dell’analisi dei dati, della campagna di campionamento e della conservazione del materiale geologico di riferimento».
Beninteso, quando si ragiona di geologia si parla di tempi molto lunghi, «nell’ordine di decine di milioni di anni», tiene a precisare la professoressa Carolina Pagli, dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa. Resta il fatto che «questi due studi ci permettono di osservare con chiarezza un processo geologico di portata enorme: la formazione di un nuovo oceano». Con i tempi che avrà, ma questo è quanto.

Una nostra elaborazione molto semplificata (e non attribuibile agli studi dell’équipe pisana) per indicare la dinamica divergente delle “placche”
«I nostri dati mostrano che la risalita di materiale caldo dal mantello è profondamente connessa ai movimenti delle placche che causano l’apertura della crosta terrestre», dice la prof. Pagli. «Questo movimento – aggiunge – non solo fa “strappare” la crosta, ma condiziona anche la risalita dei magmi. È un cambio di prospettiva importante, che migliora la nostra comprensione dei grandi processi geologici e dei processi sismici e vulcanici nelle aree soggette al fenomeno»
Come contesto scientifico vale la pena di ricordare dai tempi del liceo che, detto in modo un po’ spannometrico, sulla superficie del globo la cosiddetta crosta terrestre non è un tutt’uno bensì è un incastro fra enormi tasselli sempre alla ricerca di equilibri nuovi con conseguenze lungo i bordi di contatto.
Si è detto che gli studi al centro dell’attenzione sono due. Il primo è stato condotto da un team italo-britannico con la partecipazione di Anna Gioncada e Carolina Pagli (Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa) e di Gianmaria Tortelli (Università di Pisa e di Firenze) ed è pubblicato su “Communications Earth & Environment”: è servito a ricostruire «l’evoluzione del rift (cioè la frattura nella crosta terrestre) dell’Afar negli ultimi 2–2,5 milioni di anni. Attraverso la datazione di sedici colate laviche – è stato fatto rilevare – i ricercatori hanno dimostrato che la zona attiva del rift si è andata restringendo e spostando in modo asimmetrico, avvicinandosi sempre più a una configurazione simile a quella dei fondali oceanici». Cosa c’è dietro? «La progressiva estensione fra le “placche” arabica e africana che allontanandosi assottigliano la crosta fino a romperla».
L’altra ricerca vede capofila l’Università di Southampton ma di nuovo con la partecipazione dell’Università di Pisa (anche qui di nuovo attraverso la figura del prof. Pagli), ed è stato pubblicato su “Nature Geoscience”. Sotto la lente oltre 130 campioni lavici. Attraverso sofisticati modelli statistici – è la spiegazione che arriva dal quartier generale dell’ateneo pisano – è emerso che «il mantello sotto la regione dell’Afar si muove e si distribuisce in modo diverso nei tre rami del rift (Mar Rosso, Golfo di Aden, Rift Etiopico) in funzione della velocità di estensione e dello spessore della crosta sovrastante». In altre parole: è la tettonica a «plasmare il comportamento del mantello, e non il contrario».