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MADE IN ITALY

L’economia del cibo tira ben più del manifatturiero

Finora ha volato ma con il toto-dazi adesso cosa accadrà?

POLLENZO (Cuneo). Buona parte del resto dell’apparato industriale made in Italy soffre, sbuffa e talvolta arranca. Il settore del cibo no: mostra una «crescita solida (più 5,9% nel 2024), con proiezioni positive anche per il 2025 (più 4,6%) e per il 2026 (più 4,4%), trainate da consumi interni e investimenti industriali». Non basta, anche perché l’export viene dato «in forte espansione: nel 2025 previsto un più 7,3%, trainato da comparti chiave come vino (export per oltre 8 miliardi di euro)», anche se su questo quadretto rosa incombe «l’incognita delle politiche doganali Usa».

Questi flash arrivano dall’analisi condotta dall’osservatorio sulle performance e sui modelli di business delle aziende italiane del settore “food” realizzato dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (fondata oltre vent’anni fa per iniziativa di Slow Food) e da Ceresio Investors (gruppo bancario svizzero a base familiare specializzato nella gestione di patrimoni). Occhi puntati anche su una caratteristica forse un po’  “strana”, se vogliamo: è un settore ancorato al protagonismo di un modello familiare d’impresa («rappresentano il 67% del settore e registrano performance superiori grazie a modelli di governance evoluti e leadership strategica condivisa»).

Il “Food Industry Monitor” passa al setaccio i risultati di un campione costituito da oltre 860 aziende che globalmente valgono un fatturato aggregato di circa 87 miliardi di euro e risultano attive in 15 comparti del settore. Ai raggi x l’analisi di com’è andata dal 2009 al 2024 focalizzandosi su una serie di “termometri”: crescita, export, redditività, produttività e struttura finanziaria. Per ogni comparto vengono elaborate previsioni biennali (2025-2026) sulla crescita del fatturato e dell’export e sull’andamento della redditività.

Come detto, nel 2024 i ricavi del settore sono aumentati di quasi sei punti in una fase in cui, per guardare quel che fa il resto dell’economia italiana, il Pil resta ben distante perfino da un misero punticino percentuale di crescita (più 0,7%). Il settore mostra buoni livelli di redditività commerciale: il “Ros” (il ritorno economico rispetto alle vendite) al 5,7% e un “Roic” (il ritorno rispetto al capitale investito) al 6,9%: bene, per quanto si registri un rallentamento a confronto con gli anni precedenti. Quanto alla solidità finanziaria, era elevata e elevata resta: l’indice di indebitamento pari ad 1,19 (mezzi di terzi su mezzi propri).

Per quest’anno e il prossimo il dossier pronostica una leggera frenata dei ricavi, ma confermando la tendenza positiva: più 4,6% nel 2025, più 4,4% nel 2026.

L’analisi sulla domanda interna parte da un postulato: positiva la dinamica dell’occupazione, dunque ne dovrebbe conseguire una buona disponibilità di spesa e magari far crescere la domanda di prodotti alimentari, meglio se di qualità. Al tirar delle somme, lo dice anche il report: «La crescita dei salari resta una variabile fondamentale per un salto di qualità dei consumi interni». Peraltro, la positiva evoluzione degli investimenti industriali – si mette in rilievo – conferma come «l’industria italiana, in particolare quella del “food”, stia rispondendo alla sfida della produttività: a livello di comparto, nel 2025 cresceranno significativamente farine (più 9,9%), caffè (più 6,9%), olio (più 6,3%) e surgelati (più 5,6%).

Meglio ancora dell’andamento dei ricavi sarà quello dell’ export, anch’esso comunque in fase di riduzione della velocità: più 8,2% nel 2024, più 7,3% quest’anno, più 7% il prossimo (in valore a prezzi correnti). Con un aspetto che merita un focus: l’export relativo ai comparti mappati dal Food Industry Monitor ha raggiunto i 47 miliardi di euro, e il 13% è destinato agli Stati Uniti. Di più: il vino, da solo, genera esportazioni per oltre 8 miliardi di euro, e di questo il 30% è diretto verso gli Usa. E qui una domanda sorge spontanea:  i dazi di Trump sono costantemente sull’altalena di una trattativa fatta con la pistola sul tavolo, ma alla fine cosa accadrà?

Il “Food Industry Monitor” quest’anno tiene lo sguardi puntato sugli assetti istituzionali e sui modelli di governance che le imprese “fotografate” hanno adottato. E, come riferito, il settore del cibo e dintorni è «fortemente caratterizzato da una presenza di imprese familiari, che rappresentano il 67% del campione analizzato»: ma con punte che arrivano al 95% nel comparto delle farine, all’83% in quello dei distillati e quasi lo stesso in quello dell’olio (82%) e del caffè (81%). Perfino là dove il mercato sembra contrassegnato dalla presenza di grandi operatori internazionali – ad esempio, surgelati, birra e vino –  le aziende familiari «rimangono prevalenti, seppur con un’incidenza di poco superiore al 50%».

In fatto di governance, nelle aziende familiari tre su quattro sono gestite tramite consiglio d’amministrazione (75,8%) ma con una quota non trascurabile di imprese guidate da un amministratore unico (24,2%). Nelle aziende non familiari la struttura è «un po’ più formalizzata»: la guida da parte di un consiglio d’amministrazione arriva alla quasi totalità (93,6%). Merita qualche riga l’analisi della composizione di genere: nelle aziende familiari presentino una quota di donne presenti nei consigli d’amministrazione è di una su quattro (24,7%), quasi due volte e mezzo quanto si registra nelle aziende non familiari (10,1%).

Questo attaccamento alle radici familiari spiega anche perché le imprese tengono a durare: non le regge solo la convenienza economica nella congiuntura, hanno a che vedere con i passaggi generazionali e il buon nome del casato. Ecco che più della metà delle aziende familiari del campione (53,3%) è guidata da esponenti della terza generazione e più di una su tre (36,8%) è arrivata almeno alla quarta. Meno di una impresa su dieci è guidata dalle prime due generazioni. Il dossier dice che i comparti con la prevalenza di aziende di prima e seconda generazione sono «farina, pasta, distillati e dolci» mentre le aziende arrivate oltre la terza generazione le troviamo a occuparsi di «birra, olio e acqua».

La ricetta del successo delle aziende familiari ha radici anche  nelle performance economiche: mediamente superiori a quelli delle imprese non familiari. Lo si vede in modo rilevante sia nel ritorno sul capitale investito (roi) sia nel “return on equity” (roe).

Carmine Garzia, professore di management, è il responsabile scientifico dell’Osservatorio “Food Industry Monitor” dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo: «Il 2024 è stato un anno interlocutorio per settore del food, cresciuto a ritmi inferiori rispetto alle previsioni formulate ad inizio anno. Le prospettive per il 2025 sono positive: andranno però sicuramente riviste al ribasso in caso di attivazione dei dazi doganali e qualora l’evoluzione della guerra in Medio Oriente comportasse una contrazione significativa della produzione di petrolio e dei flussi turistici».

Il prof. Garzia invita a valutare con estrema attenzione quanto si muove sui mercati internazionali: «L’introduzione di dazi potrebbe comportare una drastica riduzione delle esportazioni: si consideri che solo alcuni operatori italiani hanno strutture produttive negli Usa e potrebbero quindi preservare le proprie quote di mercato, ma questa non è un’opzione alla portata di tutte le aziende».

Alessandro Santini, che in Ceresio Investors è responsabile del settore “Corporate & Investment Banking”, invita a riflettere su quel che sta accadendo a livello internazionale: occorre una forte accelerazione alle strategie d’internazionalizzazione delle imprese italiane investendo direttamente sui mercati in strutture produttive. «Non dobbiamo vedere il made in Italy – afferma – solo come un modello basato sull’esportazione di prodotti finiti, ma anche come l’esportazione di know-how di innovazione e produzione, che può essere messo a sistema direttamente nei mercati di destinazione».

Le previsioni per il 2026 sono ok ma – avverte Santini – «potremmo essere costretti a confrontarci con i dazi Usa e le possibili contromisure che potrebbero essere approvate in mercati strategici per il made in Italy, come quello cinese. «La crescita esterna, per rafforzare la massa critica e la presenza all’estero, resta una delle opzioni più efficaci per sostenere le sfide dei mercati internazionali e non perdere i trend di crescita».

Pubblicato il
1 Luglio 2025

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