Il caro affitti inghiotte metà della busta paga operaia, parola di imprenditore
La denuncia delle Acli: i lavoratori poveri aumentati del 55% in dieci anni
ROMA. «Il costo dell’affitto di un’abitazione in media assorbe il 43,7% della retribuzione netta di un operaio ma a Milano sfiora il 65%, in città come Firenze, Roma e Bologna supera il 50%. Soltanto a Torino (37,8%) e Napoli (34,4%) tra i grandi capoluoghi l’incidenza dell’affitto è inferiore alla media nazionale». Basterebbe questo per dare uno spessore reale alla questione salariale nel nostro Paese: prima che un indicatore relativo alla macroeconomia, si tratta di persone in carne e ossa. In passato una famiglia operaia monoreddito non viveva davvero nel lusso ma ce la faceva a sbarcare il lunario, ora se in casa non entrano anche altri spezzoni di reddito, magari precario, e/o la pensione (limitata) della nonna, non c’è possibilità di cavarsela.
L’indagine non porta la firma di un sindacato dei lavoratori dipendenti bensì, al contrario, di una organizzazione di piccoli imprenditori come la Cna: l’associazione degli artigiani ha pubblicato un report della propria area studi e ricerche, l’ha realizzata sulla base dei dati dell’Agenzia delle Entrate. Dice quel che molti sperimentano sulla propria pelle: non è sufficiente avere un lavoro per poter campare. No, non campare bene: semplicemente campare.
Lo sottolinea l’Istat: il 7,6% dei lavoratori italiani – cioè uno su 14 – è catalogabile nella condizione di “povertà lavorativa”, cioè fra parte dell’esercito dei poveri anche se ha una occupazione. Ed è una percentuale in aumento: dieci anni fa non raggiungeva la soglia del 5%.
L’Iref, istituto di ricerca delle Acli, ha passato ai raggi x i dati di circa 800mila dichiarazioni dei redditi fornite dal Caf Acli: salta fuori che nel corso dell’ultimo decennio i lavoratori in povertà sono aumentati del 55%. Soprattutto giovani, donne e meridionali: le donne con “lavoro povero” sono il doppio degli uomini, i ventenni con salario da fame sono tre volte e mezzo di più dei cinquantenni.
Attenzione, il lavoro povero è spesso quello a bassissima qualifica: semplicemente braccia con poche competenze, talmente poche da poter essere sostituite in qualunque momento da qualcun altro in condizioni ancor più disperate da essere disponibile a prestare la propria opera per un compenso ancor più basso. Ma non è una esclusiva dei “senza qualifica”: anzi, l’inadeguatezza della retribuzione «la ritroviamo addirittura nel mondo dell’alta formazione e proprio nel momento più delicato nella vita dei migliori giovani studiosi». Lo segnala Marina Brollo, direttrice del Dipartimento di scienze giuridiche dell’università di Udine, in un recente contributo sull’ “enigma del lavoro povero” (su “Lavoro diritti Europa”, rivista di diritto del lavoro).
In tandem con la lentezza delle carriere accademiche, questa inadeguatezza del reddito offerto ai livelli più alti delle nuove leve di studiosi è tale da alimentare la “fuga di cervelli”. «Basti segnalare – dice Brollo – la condizione dei giovani ricercatori (preziosa linfa vitale per la ricerca universitaria) nelle posizioni “pre-ruolo” (o “post-doc”) rappresentata dalla tortuosa vicenda degli assegni di ricerca, strumenti imperfetti, ma almeno agili e collaudati» e ora «improvvisamente bloccati, poi prorogati per un biennio per gestire i fondi Pnrr (con un incerto stillicidio di proroghe)»…
Tornando all’inchiesta della Cna, vale la pena di notare che, visto con gli occhi delle imprese, quest’aspetto fa capire cosa c’è dietro la difficoltà per molte aziende di trovare lavoratori. Per la ricerca condotta dalla Cna «il caro-affitti ostacola la mobilità interna». Di più: negli ultimi anni le cose sono andate di male in peggio a motivo di «un aumento medio dei canoni liberi del 19,5% a fronte di un incremento delle retribuzioni nette del 14%».
Dunque non c’è solo il disallineamento fra la bussola degli studi e le richieste del mercato del lavoro: «In pochi anni – viene sottolineato – la quota di assunzioni di difficile reperimento è salita dal 21,5% del 2017 a oltre il 50% dello scorso anno», dice l’analisi dell’organizzazione degli artigiani. Per questo motivo, una adeguata politica sulla casa aiuterebbe a «ridurre lo squilibrio tra la distribuzione territoriale delle assunzioni previste dalle imprese (intorno a 5,5 milioni l’anno) e livelli di disoccupazione». Anche perché ormai in una provincia su tre si registra «una elevata saturazione del mercato del lavoro»: ad esempio, a Bolzano i lavoratori “occupabili” sono «soltanto il 7,4% delle assunzioni programmate», a Belluno il 9,9% e, tra le grandi città, Bologna non arriva al 16% e Milano resta sotto il 19%.
L’indagine condotta dal centro studi Cna a livello nazionale provincia per provincia indica che «calmierare gli affitti di mercato favorirebbe la mobilità interna: in 36 province italiane l’incidenza del canone supera il 30% del reddito netto di un operaio». Soltanto a Taranto, Alessandria, Isernia, Vibo Valentia e Caltanissetta – tutte nel Meridione tranne una – è al di sotto del 20% mentre è Potenza la città, con il 17% del reddito netto, la realtà territoriale dove più basso è l’impatto dell’affitto sui conti di una busta paga operaia. Invece tra i capoluoghi in cui più forte è la saturazione del mercato del lavoro (e dunque le imprese fanno più fatica a trovare manodopera) soltanto in quattro casi l’incidenza dell’affitto è inferiore al 25% del reddito disponibile: a Belluno, a Trento, a Biella e a Gorizia.