Il “Green Pass” e i suoi rebus

ROMA – L’eccesso di burocrazia spaventa sempre in tutti i campi, ma terrorizza addirittura quando c’è di mezzo la salute e occorrerebbero regole chiare, semplici, immediatamente applicabili.

È il caso del “Green Pass” di recente annunciato. Mentre si è discusso per giorni sull’obbligo o meno di averlo per entrare in un bar o in un ristorante, è poco chiaro quali sono i termini previsti per ottenere l’agognato certificato.

Si ottiene il Green Pass, secondo ultime disposizioni rese note dal Ministero della salute, dopo una delle seguenti condizioni: l’inoculamento almeno della prima dose vaccinale Sars-CoV-2 (validità 9 mesi); la guarigione dall’infezione da Sars-CoV-2 (validità 6 mesi); l’effettuazione di un test molecolare o antigenico rapido con risultato negativo al virus Sars-CoV-2 (con validità 48 ore).

Per adesso siamo fermi a questo o poco più. Il vero problema è che le strutture sanitarie cui è delegato il potere di rilasciare il “pass” (o di certificare la possibilità del rilascio) non hanno le idee chiare e specialmente hanno interpretazioni difformi, come si sta verificando anche nei controlli e nelle certificazioni post-Covid, con casi a volte che sconfinano nell’assurdo. Da qui la necessità di un vero, sintetico e chiarissimo “codice” che ancora non si è visto.

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