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Il principio della “naval diplomacy” e la formazione nella marina

I nuovi compiti integrati anche con quelli non strettamente bellici richiedono una allargata multidisciplinarietà per il personale – Le linee del “protocollo di Bologna”

Cristiano Bettini

ROMA – L’integrazione operativa tra le marine militari occidentali sta facendo passi significativi avanti anche con la collaborazione progettuale e costruttiva sulle navi delle ultime generazioni. E’ il caso, per quanto riguarda l’Italia, della portaerei “Cavour” che interesserebbe almeno ad un paio di paesi in via di potenziamento della propria marina, e dell’acquisto da parte italiana di un cantiere Usa specializzato in costruzioni militari, nel quale stanno nascendo interessanti studi per le “littoral ships” del prossimo futuro. Da sottolineare che gli Usa comunque stanno già procedendo con un programma molto intenso di sperimentazione proprio nel settore delle “littoral ships”, avendo già ordinato tre esemplari di un progetto dell’australiana Austral (trimarani ad alte prestazioni) dei quali il prototipo, l’«Indipendence», è ormai in servizio permanente.

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Sempre sul piano dell’integrazione tra marine, anche quella dell’Oman sta armandosi con una serie di corvette costruite da Fincantieri di cui la seconda, battezzata “Al Rahmani”, sarà consegnata nei prossimi mesi per entrare in servizio alla fine del 2011.

Ma l’integrazione dei mezzi navali è solo un aspetto, e nemmeno il principale, per ottimizzare la collaborazione tra le marine. E specie a livello europeo, sta diventando determinante la formazione degli ufficiali, sulla base di un principio, la “naval diplomacy”, che lanciato per la prima volta dal presidente Usa Roosevelt è tornato oggi- con i debiti aggiornamenti – di grande attualità.

Ne ha parlato di recente in una intervista l’ammiraglio di squadra Cristiano Bettini, capo del personale e ispettore alle scuole della Marina, tra cui la prestigiosa Accademia Navale.

Ammiraglio Bettini, il principio di Naval Diplomacy introdotto dal presidente americano Roosevelt, come si traduce in termini di formazione del personale?

“La Naval Diplomacy è uno degli importanti compiti svolti dalle Marine che ha ricadute sulla formazione. In realtà dalla fine del bipolarismo della Guerra Fredda, le Marine Europee hanno dovuto rispondere in modo crescente ad altri compiti loro propri che richiedono una specifica formazione: mi riferisco soprattutto alle fasi di gestione delle crisi ove le navi costituiscono strumenti versatili, di pronta disponibilità, capaci di un uso determinante e flessibile del potere marittimo, con una grande capacità di assumere un incredibile carico logistico, dall’inizio della crisi alle fasi post belliche e della ricostruzione.
Restano inoltre tutti gli altri compiti di sorveglianza, sicurezza, proiezione tra cui potrei citare le op.anfibie/evacuaz./antiterr./antipir./embargo e interventi in caso di calamità naturali o di carattere umanitario, come nell’ultima missione del CAVOUR in occasione del sisma di Haiti, di informazione discreta con lo strumento navale e subacqueo.

Una grande varietà di interventi che coprono attività con sinergie diplomatiche, operative,  industriali logistiche ed organizzative e di impiego degli uomini, che ci impegnano a pensare e decidere con strumenti ideologici e competenze non settoriali ma integrate.

E’ una vera sfida anche formativa che si inquadra in quella che oggi viene usualmente definita Complessità, cioè la necessità di un continuo adattamento a realtà e fenomeni esterni quasi mai lineari, imprevedibile e spesso irreversibili e dove minime varianti possono innescare nuove crisi.

Questo richiede una cultura che consenta di pianificare e progettare in modi nuovi per rispondere a fenomeni non lineari, basandosi più sul calcolo del rischio in evoluzione, per cogliere i segnali deboli insorgenti, di rinunciare alle semplificazioni, di non ragionare in termini di prevedibilità lineare, deterministica, in modo detto “adattivo”, in cui ciascuno dei nostri giovani si dovrà sentire come un nodo attivo in una rete di comunicazione, che deve rendersi compatibile anche ad una più tradizionale struttura gerarchica di Comando”.

A fronte di tutti questi contesti così diversificati in cui la Marina si troverà ad operare, come sintetizzerebbe con due parole gli indirizzi necessari al futuro della formazione?

“Se lei mi concede solo due termini, credo che i due più adatti siano multidisciplinarietà, che vuol dire integrazione di cultura scientifica, giuridica e di relazioni internazionali con quella più tipicamente professionale, termine che raccoglie la complessità odierna di una formazione completa. La seconda è formazione continua; questo è anche il termine usato  nel Protocollo di Bologna, che costituisce il principale documento di indirizzo europeo per la formazione dei giovani, che dovrebbe trovare attuazione proprio dal 2011.

Tutti i compiti che ci aspettano richiedono diverse abilità; ma siamo convinti che prima di “saper fare” bisogna “saper essere”. Ecco perché nella nostra formazione puntiamo molto sulla crescita individuale ed etica.

Naturalmente questo richiede un notevole impegno individuale dei nostri giovani Ufficiali e Sottufficiali, dei quali è compito di noi Ufficiali più anziani sostenere la motivazione.

Sappiamo comunque per esperienza che ad una elevata formazione iniziale corrisponde un’elevata probabilità di successo”.

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Pubblicato il
22 Dicembre 2010

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